Uno studio sull’Art. 40 in materia di autonomia valutaria di Massimo Costa docente dell’Università di Palermo

Massimo Costa.jpgNote per un’applicazione integrale dello Statuto della Regione Siciliana

‘A munita siciliana? Si po fari

Uno studio sull’Art. 40 in materia di autonomia valutaria

 

 

1. Che cos’è? Da cosa nasce? Come funziona?

 

L’Art. 40 dello Statuto della Regione Siciliana contiene, nascosto quasi pudicamente come molte norme della nostra Carta Costituzionale, un dettato dal significato a dir poco clamoroso:

 

Le disposizioni generali sul controllo valutario emanate dallo Stato hanno vigore anche nella Regione.

È però istituita presso il Banco di Sicilia, finché permane il regime vincolistico sulle valute, una Camera di compensazione allo scopo di destinare ai bisogni della Regione le valute estere provenienti dalle esportazioni siciliane, dalle rimesse degli emigranti, dal turismo e dal ricavo dei noli di navi iscritte nei compartimenti siciliani.

 

L’uomo della strada, anche di buona cultura, resta un po’ perplesso dalla lettura di questo articolo, quasi con le idee confuse. Si capisce chiaramente che la Sicilia si vede restituire, almeno in parte, qualche beneficio e potestà da stato sovrano in materia di politica monetaria e valutaria, ma si capisce anche che il tema ha una portata “tecnica” di difficile comprensione e forse di ancor piú difficile applicazione. Qualche “ascaro” sempre pronto a svendere la nostra Autonomia già ce lo immaginiamo a dire “sí, è vero, nel 1946 fu fatta questa concessione, ma….” e poi giú con le solite motivazioni secondo cui esso DEVE restare lettera morta: poca coordinazione con la Costituzione, improponibilità di fronte alla comunità nazionale ed europea, “superamento” rispetto agli attuali vincoli internazionali e cosí via. In realtà, unendo competenze da economisti e da “cultori” di cose istituzionali siciliane, si può assumere ex professo che non uno di questi atteggiamenti “rinunciatari” abbia un minimo di fondamento, se non quello puramente psicologico della paura di essere liberi, di fare finalmente una volta tanto i propri interessi, e non sempre e solo quelli degli altri; paura inculcata quasi sin dalla scuola elementare ad un Popolo abituato a curvare la schiena.

In questa nota ci permettiamo di divulgare ai cittadini siciliani, quelli stessi che oggi non arrivano a fine mese anche per politiche monetarie a loro aliene, il significato di quella norma, le sue potenzialità attuative, la sua incredibile attualità.

Partiamo in questo punto da una spiegazione “tecnica, storica e sistematica” del reale portato della norma in questione. Prima di farlo però ci sia consentita una precisazione preliminare: lo scritto è divulgativo, non per questo ultra-semplificatore, ma non cerchino gli “economisti monetari” e i “costituzionalisti”, tali per professione universitaria o altro, esattamente i loro linguaggi e le loro “fisime” scientifiche (dottrina, lessico, citazioni, etc.). Questo “non è” scritto esoterico, ma direttamente rivolto ai cittadini, con quel proficuo (si spera) eclettismo che deve orientare la partecipazione democratica e l’azione politica pratica.

Cominciamo con una spiegazione tecnico-giuridica della norma secondo il suo significato letterale. Il linguaggio usato, come spesso accade nei testi di legge, è in parte obsoleto, ma l’interpretazione attualizzata non è poi cosí difficile. Una cosa del genere accade, ad esempio, anche nella Costituzione, dove non si parla di “tutela dell’ambiente” ma di “tutela del paesaggio”, come restrittivamente si concepiva allora l’ambiente, ma ciò non ha impedito alla giurisprudenza di attribuire un contenuto semantico odierno ad un termine ormai divenuto antico. Oppure ancora, nel codice civile, la diligenza ordinaria nell’adempimento delle obbligazioni è detta, con termine tratto dall’antichissimo diritto romano, “del buon padre di famiglia”, ma ciò non ha impedito alla norma di essere produttiva di effetti assai concreti. Veniamo dunque al tenore letterale della norma.

1° comma: Le disposizioni generali sul controllo valutario emanate dallo Stato hanno vigore anche nella Regione.

Detto cosí sembrerebbe che la norma voglia dirci soltanto che le norme statali in materia di detenzione di valute estere e di regolamenti di pagamenti internazionali, divise estere, etc. “valgono anche in Sicilia”. Perché ce lo dice? Forse c’è bisogno di dire che valgono anche in Calabria, Basilicata,…? Vedremo piú avanti il significato “sistematico” di questa norma. Il significato letterale, e sostanziale affinché il comma abbia senso compiuto, è che la Sicilia è in piena unione monetaria con il resto d’Italia (e quindi, implicitamente, con l’Unione Europea a seguito dei trattati di Maastricht e seguenti revisioni) e che tale unione monetaria sia parte integrante della Costituzione della Repubblica. Una ipotetica uscita da questa “unione” appare teoricamente possibile, visto che la norma prevede esplicitamente l’unità delle norme valutarie, mediante semplice “modifica dell’articolo” (le competenze riservate dalla Costituzione allo Stato in materia valutaria sono infatti espressamente derogate ove esistessero condizioni di maggior favore per le Regioni a Statuto speciale, come in questo caso), ma appare ipotesi di scuola. Prendiamo atto dunque di questo punto di partenza.

2° comma: È però istituita presso il Banco di Sicilia, finché permane il regime vincolistico sulle valute, una Camera di compensazione allo scopo di destinare ai bisogni della Regione le valute estere provenienti dalle esportazioni siciliane, dalle rimesse degli emigranti, dal turismo e dal ricavo dei noli di navi iscritte nei compartimenti siciliani.

Per capire questo secondo comma dobbiamo risalire al momento in cui fu redatto. Il Banco di Sicilia, ancor oggi esistente come società per azioni, era allora “Istituto di credito di diritto pubblico”, era cioè un ente pubblico, e, in quanto tale, poteva essere investito di pubbliche funzioni. A parte il fatto che già da sola la previsione di una funzione costituzionalmente garantita potrebbe invalidare a monte tutto l’illegittimo processo di privatizzazione, e spossessamento, del Banco ordito ai danni della Sicilia (ma non è – per cosí dire – punto all’ordine del giorno); resta che questa previsione “presuppone”, esistente o da creare, un istituto di credito siciliano “centrale” che sia di diritto pubblico, senza il quale la norma non ha possibilità di funzionare. Si potrebbe fare gli avvocati del diavolo dicendo che, essendo scomparsa la “banca pubblica” di Sicilia, le sue funzioni potrebbero essere assorbite dagli uffici periferici (sede di Palermo) della Banca d’Italia. Ma non condividiamo tale interpretazione abrogativa, giacché – se avesse voluto – il legislatore costituzionale avrebbe potuto prevedere tale soluzione già sin dall’inizio; avendo detto “Banco di Sicilia”, intendeva invece riferirsi ad un’istituzione autonoma, anche perché un’autonomia valutaria senza un’istituzione autonoma sarebbe del tutto contraddittoria in termini.

Presso questo “banco pubblico” è istituita, presumibilmente con un’amministrazione separata, una “Camera di compensazione” per le transazioni internazionali, un po’ come, per la Banca d’Italia, per molti anni è stato l’Ufficio Italiano Cambi (e qui ritorna il parallelo tra l’istituto monetario e una banca centrale pubblica). La legge n. 433 del 1997 e il successivo decreto legislativo attuativo del 1998 hanno pienamente integrato l’UIC nella Banca d’Italia; ora esso, già da sempre integrato con la prima, è “ente strumentale” della Banca Centrale. In Sicilia è ancora piú semplice: l’organicità della Camera di compensazione, con compiti di gestione delle riserve ufficiali, con l’istituto bancario pubblico siciliano centrale (da ricostruire purtroppo, ad oggi) era già scritta nello Statuto (“è istituita presso il Banco di Sicilia”, e “presso” non si riferisce certo ad un recapito postale ma ad una strutturale integrazione). Cos’è la “Camera di compensazione” o, in inglese, clearing house? È un luogo in cui crediti e debiti tra istituti di credito si compensano tra di loro senza bisogno di far spostare moneta legale, al di fuori ovviamente delle partite residuali. Anche nelle transazioni interne, quando noi paghiamo con un assegno tratto da una banca e versato ad un’altra banca, possiamo pensare ingenuamente che la banca che prende l’assegno poi “si faccia dare i soldi” dalla banca che l’assegno ha emesso. In tal modo ci sarebbero fiumi di denaro che circolano in continuazione. Le “camere di compensazione”, nazionali e internazionali, regolano queste partite. Un tempo ce n’erano molte in Italia; ora – manco a dirlo – quella di Palermo è stata chiusa e le camere di compensazione interne sono solo due: Roma e Milano. Ma non è delle camere di compensazione interne che si deve trattare (l’autonomia in materia creditizia le presupporrebbe, ma, ancora una volta, non è questione all’ordine del giorno). Qui stiamo parlando della Camera di compensazione per le regolazioni internazionali con divise estere (cambiali o monete non aventi corso legale). Tale “Camera” provvede a regolare in valuta le partite derivanti dai saldi della “Bilancia dei pagamenti”. La norma, ancora una volta antiquata, si limita ad elencare fattispecie specifiche di transazioni con l’estero (esportazioni, rimesse, turismo, etc.), ma è chiaro che si sta parlando dei saldi globali della bilancia dei pagamenti. Perché ad esempio si parla di esportazioni e non di importazioni? Perché ai tempi si pensava alla Sicilia come un paese povero che non importava molto dall’estero ma che esportava materie prime (zolfo, grano, …) ma una camera di compensazione non può funzionare in modo parziale. Al saldo della bilancia commerciale si aggiungono le partite cosiddette invisibili (turismo, rimesse, noli, etc.) e necessariamente anche quelle derivanti da movimenti di capitale. Ciò che resta sono i saldi monetari da regolare in maniera centralizzata dalla “Camera”. Per i non addetti ai lavori la bilancia dei pagamenti (un conto della contabilità nazionale che esprime le transazioni con l’estero) è costituita da tre sezioni: partite correnti, movimenti di capitale e movimenti monetari. L’ultima sezione è anche la meno movimentata, poiché spesso un paese in deficit commerciale è anche un paese che si indebita e viceversa; i saldi monetari esprimono la parte “regolata” dei crediti e dei debiti. In regime di cambi fissi i movimenti monetari sono indispensabili per mantenere il corso della moneta sulle valute estere; in regime di cambi flessibili i movimenti monetari sostengono la moneta ma sono anche sostituibili da una rivalutazione o svalutazione della stessa rispetto alle altre. Questo implica – teniamolo a mente perché lo riprenderemo – che la detenzione e manovra delle riserve equivale a gestione della politica monetaria (non necessariamente al suo governo che potrebbe essere deciso “piú in alto” da politiche della Banca d’Italia o, meglio oggi, della Banca Centrale Europea).

È anche vero che questo sistema è previsto “finché permane il regime vincolistico sulle valute”, cioè finché lo Stato si arroga il diritto di saldare le partite monetarie con l’estero e non le lascia correre liberamente in mano ai privati. Oggi è ancora cosí o non è cosí? Diciamo che è ancora cosí ma a livello di Unione Europea. Ovviamente “è ancora cosí” nel quadro però di una maggior libertà di detenzione di valute e divise estere da parte di operatori commerciali e bancari. In particolare dal 1988 (D.P.R. n. 148) è cessato il “monopolio dei cambi” detenuto dall’Ufficio Italiano Cambi e i movimenti di capitale sono stati liberalizzati in Europa dal 1990; ciò vale ovviamente anche per la Sicilia e questa, per mezzo della sua Camera di compensazione, non potrà mai creare ostacoli, anche di fatto, a questa libera circolazione (almeno a trattati vigenti). Ciò non toglie che le funzioni centralizzate di gestione delle riserve valutarie non siano affatto per questo venute meno; nell’odierno e piú elastico “regime vincolistico delle valute”, le disposizioni del nostro art. 40 mantengono quindi tutto il loro vigore. Le valute sono “vincolate” complessivamente dal SEBC (sistema europeo delle banche centrali), poi ciascuna banca centrale ha la sua camera di compensazione e le sue riserve, ma sempre nell’ambito di un coordinamento continentale. Il dettato statutario sembrava prevedere un coordinamento “nazionale”: cambiata la scala sembra che null’altro cambi.

Riassumendo: la Sicilia dovrebbe avere un suo ufficio valutario che regoli le transazioni con gli stati extra-Eurozona, coordinato con quello dell’Italia e quelli degli altri stati europei, gestendo in proprio le valute estere e, necessariamente, le riseve auree a quelle assimilate. In fondo non è neanche troppo difficile da capire: quello che ha – poniamo – la Lituania o Malta, ce lo dovrebbe avere anche la Sicilia, non in capo al suo “esecutivo”, e quindi non “volgarmente” in mano alla politica, ma ad un ente tecnocratico sí, ma riconducibile ad un istituto di credito di diritto pubblico.

Infine la norma prevede una destinazione “di scopo”: tali valute sarebbero da “destinare ai bisogni della Regione”. È ovvio che la Camera di compensazione, per il proprio funzionamento, non può destinare “tutte” le valute e riserve di cui dispone ai “bisogni della Regione”, ché altrimenti in breve risulterebbe deprivata di ogni riserva. La lettura della norma quindi è indispensabile sia corretta in: “le eccedenze” valutarie rispetto alle esigenze della politica monetaria, sono da destinare etc. Ma anche in questa “ristretta visione” è molto chiaro che si apre una fonte di finanziamento per le spese regionali di portata insperata. Non dice la norma, infatti, che il Banco (o chi per esso) “presta” tali eccedenze alla Regione, ma semplicemente le , in quanto pubbliche e in quanto eccedenti le necessità di politica monetaria. Non vogliamo accreditare teorie secondo cui ciò basterebbe ad annullare il debito pubblico o a ridurre drasticamente l’imposizione, tanto piú che i comandi della politica monetaria continentale resterebbero sempre ben al di là della capacità d’agire dell’ente pubblico siciliano bancario o della Regione Siciliana. Ma certo è che ci sarebbe una nuova, importante, entrata, frutto del solo lavoro dei Siciliani (derivante cioè dall’eventuale surplus della bilancia dei pagamenti) e una nuova entrata significa aritmeticamente e contabilmente due cose, a prescindere dall’entità del flusso: diminuzione di altre entrate o aumento di spese. In ogni caso un beneficio insperato per l’economia isolana.

Perché una norma di portata cosí ampia venne inserita nello Statuto, cosí tanto ai limiti della sovranità statuale? In effetti lo stesso “progetto Vacirca”, prima bozza di lavoro per lo Statuto, sostanzialmente indicata dagli stessi Alleati all’atto della riconsegna all’Italia dell’amministrazione della Sicilia, pur piú avanzata su altri punti, tace sull’argomento. Questo, in modo assai imperfetto, era presente invece nella bozza di Statuto elaborata “fuori” dalla Consulta dagli indipendentisti del MIS (di cui ad evidenza la Consulta tenne conto), ma aveva solo natura ripararatoria (restituzione delle riserve auree al Banco, rimesse degli emigrati, etc.) senza un chiaro disegno unitario. La norma quindi si formò proprio in seno alla Consulta, accogliendo il suggerimento di uno dei progetti “minori” allegati ai lavori della Consulta medesima (quello di un certo “Movimento per l’Autonomia della Sicilia”), come ripristino delle condizioni di sovranità monetaria dell’Isola, da poco (1926) sacrificate sul solito altare degli interessi nazionali.  Dagli atti risulta che l’unica opposizione fu quella dei comunisti, per opera di Li Causi, timoroso che la concessione equivalesse alla creazione di una “moneta siciliana” (in un certo senso l’aveva capito); l’Aldisio, invece, di fronte all’accesa perorazione di altri consultori, minimizzò il problema e suggerí di adottare la norma (possiamo fare un “cattivo pensiero”? pensando poi che si sarebbe trovato il modo di rimangiarsela?). Anche Einaudi, alla Costituente, tentò invano di bloccare la “lira siciliana”; l’ostruzionismo dei veri siciliani la salvò.

Il Banco, infatti, nato come banca centrale (a capitale privato, però) nella rivoluzione del ’48, era sopravvissuto alla Restaurazione del ’49 come banca centrale pubblica per il territorio siciliano; la sua sopravvivenza faceva parte dei “patti per la resa” a Ferdinando II Borbone ed era un ideale compenso per la chiusura della Zecca di Palermo che aveva “monetato” l’ultima volta negli anni ’30, dopo che la Sicilia aveva coniato le proprie monete senza soluzione di continuità almeno dai tempi dei Bizantini (VII sec. d.C.). Ancora, i due Banchi meridionali erano sopravvissuti persino alla “bufera” garibaldina ed all’annessione all’Italia, soprattutto per la ferma opposizione dei liberali siciliani (il Ferrara in testa) che a quel processo avevano in qualche modo contribuito. Non furono soddisfatte le loro pretese di confederalismo, furono anzi derise dall’establishment sabaudo che pure se n’era servito per distruggere la monarchia meridionale, ma il fragile stato unitario dovette accettare lo statu quo monetario nel Mezzogiorno, sia pure ponendo i due Banchi in una posizione subalterna rispetto al Banco Nazionale, poi Banca d’Italia, non fosse altro che per l’obbligo di copertura totale delle relative emissioni. Questo equilibrio durò fino al regime fascista, quando le funzioni di emissione furono centralizzate in capo alla Banca d’Italia e le riserve valutarie siciliane, strutturalmente in attivo, furono centralizzate a Roma senza dare alla Sicilia alcun risarcimento.

Diciamo cosí che la “ferita” era troppo fresca per essere prontamente dimenticata. L’istituzione della Camera di Compensazione, come di altri istituti isolani aboliti durante il regime quale la Cassazione, rientrava in una logica che riparava ai torti subiti ed impostava un rapporto equilibrato e razionale tra la Sicilia e il Continente. Nei primi anni vi fu effettivamente un grande fermento intellettuale per l’applicazione dell’articolo (alcuni studi del Frisella Vella ad esempio, chiaro economista palermitano), molte lamentele dall’Alta Corte, per bocca del suo piú autorevole giudice, il Finocchiaro Aprile, sul boicottaggio centralista della norma, poi la Sicilia ebbe problemi piú gravi cui pensare, l’abolizione dell’Alta Corte, le dimissioni di Alessi, la “rivolta” milazzista e la successiva “normalizzazione”, e cosí su quest’articolo scese, ingiustamente, l’oblio.

La piú corretta interpretazione adatta ad oggi, tuttavia, va posta in termini sistematici. La norma va inserita nel quadro complessivo dello Statuto, della Costituzione italiana adesso vigente e degli obblighi internazionali nel frattempo contratti.

Lo Statuto definisce ancora, mai abrogato, solo inapplicato, un rapporto sostanzialmente confederale tra Sicilia e Italia. La limitazione di sovranità in materia monetaria di cui al primo comma trova cosí finalmente giustificazione: non sono gli ambiti di autonomia a dover essere esplicitati, ma quelli riservati allo Stato italiano. E non c’è ambito di politica da stato sovrano che non sia toccato nello Statuto, anche solo per dire che su queste materie la competenza è riservata allo Stato. Per questo l’articolo sancisce l’unione monetaria con l’Italia (ed oggi, a fortiori, con l’Europa); perché, essendo sovrana la Sicilia, teoricamente potrebbe anche non essere cosí. Ma la detenzione e la vendita di valute e riserve equivale sostanzialmente all’emissione di moneta. Questo punto va ulteriormente argomentato.

Lo Statuto dà competenze alla Regione in materia di credito e in generale su ogni materia finanziaria (quindi ivi comprese le assicurazioni, la borsa, etc.) nei limiti dei principi e degli interessi generali della legislazione repubblicana. Entro questi blandi limiti stabiliti dal Parlamento italiano, la Sicilia gestisce, magari secondo il principio europeo dell’home country control (cioè che ognuno si controlla le aziende che hanno sede legale nel proprio territorio, dovunque operino) tutto il proprio settore finanziario. Illegittimo appare, dunque, l’operare delle authorities italiane sul territorio siciliano (Banca d’Italia, ISVAP, Consob). Mettiamo insieme questi elementi dunque: necessità di un’autorità di vigilanza sul credito separata da quella nazionale per dare vita all’autonomia creditizia stabilita dallo Statuto, possibilità di detenere e manovrare risorse valutarie le cui operazioni equivalgono ad emissione e ritiro di moneta sul territorio regionale, necessità che la “Camera” che gestisce queste operazioni dipenda, con amministrazione separata, da un istituto finanziario di diritto pubblico (il “Banco di Sicilia” di cui parla lo Statuto e non quello attuale privato). Come possono funzionare assieme tutte queste cose nel modo meno farraginoso possibile? In uno e in un solo modo, il piú diretto, il piú semplice: con un istituto di emissione e di vigilanza siciliano separato da quello italiano, seppure allo stesso coordinato! Cioè con la partecipazione separata di questo istituto pubblico (con annessa “camera di compensazione”) al Sistema Europeo delle Banche Centrali e con partecipazione alla BCE in proporzione ad abitanti e PIL della Sicilia, sacrificati proporzionalmente dalla partecipazione della Banca d’Italia. Piú semplice di cosí… Qualunque motivazione tecnica o politica di “impraticabilità” del sistema sarebbe infondata alla radice. Il sistema già funziona in Europa, non si vede perché non debba funzionare con una banca centrale in piú; il sistema non spezza l’unità nazionale italiana, né l’unità monetaria del paese, dato che la Sicilia, come la Scozia, ha secoli di statualità e moneta propria, condizioni particolari non ravvisabili in altra parte del Paese, e dato che già oggi in Italia circola moneta che non è emessa da istituti italiani (se è vero, infatti, che ognuno emette moneta in funzione della propria importanza economica, questa poi gira liberamente nell’Unione, senza nessuna distinzione del luogo in cui è stata emessa).

La riserva costituzionale allo Stato della materia valutaria e monetaria non opera, infine, perché la norma speciale del Nostro Statuto prevale esplicitamente su tale norma generale a valere per le regioni a statuto ordinario e per le altre a statuto speciale in cui tale previsione normativa non è contenuta.

L’articolo 40 dello Statuto, insomma, nel combinato disposto con il resto dello Statuto, con la Costituzione e con i trattati europei non dice altro che la Sicilia emette per mezzo di apposito istituto pubblico la propria moneta (entro i limiti delle politiche monetarie europee), controlla, sempre per mezzo del medesimo istituto, le proprie istituzioni finanziarie (e le difende dal colonialismo italico), gestisce le proprie riserve valutarie in modo autonomo e destina le eventuali eccedenze di queste ai bisogni della Regione.

 

2. Giuridicamente è possibile

 

Non riteniamo che le grandi riforme si facciano “solo se” ciò è giuridicamente possibile. L’aspetto giuridico è certamente di cruciale importanza, ma è forma; la sostanza è data dalla volontà politica e dal consenso. Solo con quella la Sicilia potrà riacquistare le proprie prerogative in materia valutaria e monetaria. Perché allora questa parentesi sulla possibilità, in termini di diritto costituzionale e internazionale, di attuare l’art. 40 del nostro Statuto nel senso detto sopra? Perché già prevediamo la facile obiezione secondo cui ci si dirà che il testo, antecedente all’unione monetaria europea, sarebbe irrimediabilmente superato da quella. Si dirà – a sproposito – che ciò creerebbe inconcepibili barriere alla circolazione monetaria e di capitali in Europa, che ciò isolerebbe la Sicilia, e cosí via. Tutte “baggianate” – ci si consenta la franchezza – di chi forse neanche sa come funzionano i mercati monetari o non ha neanche letto i trattati.

Per vedere come invece il sistema sopra indicato non abbia nessuna contraddizione con i trattati europei entriamo nell’articolato di questi ultimi per ciò che concerne la materia suddetta.

Prendiamo dalla versione consolidata dei trattati, oggi disponibile on line in lingua italiana sul sito dell’Unione Europea, gli articoli che ci interessano.

Gli artt. 56-60 disciplinano la libera circolazione dei capitali e il divieto di ogni tipo di restrizione a pagamenti intercontinentali o a movimenti di capitali. L’istituto siciliano separato di emissione monetaria e di gestione delle valute comprometterebbe tale libera circolazione? No, perché se cosí fosse la BCE avrebbe dovuto letteralmente assorbire tutte le banche centrali e non coordinarle semplicemente in un sistema istituzionalizzato. Se non è ostacolo alla circolazione di capitali la compresenza di piú istituti di emissione nello stesso continente competenti per territorio non lo è nemmeno la presenza di quello siciliano garantito dalla Costituzione della Repubblica italiana di cui lo Statuto fa parte.

Ma l’articolo piú importante è il 105, che attribuisce nel territorio dell’Unione la politica monetaria al Sistema Europeo delle Banche Centrali (d’ora in poi, brevemente, SEBC). Quindi la politica monetaria siciliana deve essere decisa dal SEBC. E allora? Non farebbe parte del SEBC forse la nostra istituenda banca centrale? Ma anche prima del SEBC era lo stesso: allora la politica monetaria doveva essere decisa dalla Banca d’Italia (forse con la compartecipazione del nostro Banco, ma in posizione subalterna, per la sola emissione monetaria in proporzione a popolazione e prodotto interno lordo siciliano), anche se l’art. 40 si fosse applicato. Niente di nuovo quindi; solo uno spostamento in Europa dei vertici della politica monetaria. L’articolo in questione specifica che compito del sistema è anche la “detenzione e gestione di riserve ufficiali in valuta estera degli stati membri”, ma subito dopo, al comma 2°, specifica che questa competenza “non pregiudica la detenzione e gestione di valuta estera da parte degli stati membri”. Il SEBC, quindi, decide la politica di detenzione e gestione delle valute estere, ma lascia ai singoli stati membri (secondo il loro ordinamento costituzionale) una competenza sussidiaria in tal senso. Ancora una volta nessun ostacolo! Il comma 4° imporrebbe un obbligo di consultazione e di parere alla BCE per la “riforma” da fare (ma in realtà sarebbe soltanto una riforma attuativa della nostra Costituzione) e nulla di piú.

L’art. 106 disciplina l’emissione di monete metalliche e cartacee.

Le prime sono riservate, su quantità stabilite dalla BCE, agli “stati”. Qui, in verità, le soluzioni potrebbero essere due: o lo stato italiano, forte di questa interpretazione letterale, si riserva questo privilegio e – a norma di Statuto – noi non avremmo nessun titolo “esecutivo” per fargli abdicare a questo privilegio; oppure, essendo decentralizzata tutta la politica monetaria, si concorda con lo Stato italiano una riapertura della “Zecca di Palermo”. In fondo questo è materia di accordo politico, peraltro su una questione oggettivamente secondaria. Non si può obiettare che la zecca debba essere unica per ogni stato: non lo è in Germania, tanto per fare un esempio. Nulla vieta che la quota di moneta metallica riservata allo stato italiano, sia da questo ripartita con norma interna tra una zecca centrale e una periferica in Sicilia con attribuzione alla Sicilia dei relativi proventi di signoraggio (esattamente come si fa oggi per le modeste emissioni metalliche della Repubblica di S. Marino e della Città del Vaticano). Che senso avrebbe, infatti, che la Sicilia possa controllare la moneta emessa sul suo territorio, le sue riserve e l’unica cosa che non dovrebbe avere sono le piccole monetine metalliche? Ma se lo stato italiano ne fa questione simbolica di segno della permanenza della sua sovranità sulla Sicilia non sarebbe neanche uno scandalo la rinuncia a questa prerogativa o il suo rinvio ad un secondo momento, o una sua attuazione parziale, scrivendo sulle monete “Repubblica Italiana – Sicilia” o dizione simile.

Le seconde, le cartacee, sono emesse dalla BCE e dalle banche centrali (tra cui la nostra) ma sempre dietro autorizzazione della BCE.

Insomma il problema è soltanto e sempre uno: fare riconoscere alla BCE che le funzioni di Banca Centrale in Italia sono distinte tra due enti con diversa competenza per territorio. Non è possibile? Per quale ragione? Il trattato parla genericamente di banca centrale, rinviando ai diritti interni per la definizione di cosa sia banca centrale o no; non indica in nessuna norma che per ogni stato membro debba esserci una sola banca centrale. Del resto il Regno Unito ha una struttura complessa: una banca centrale per Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord e ben tre (una sorta di consorzio) per il territorio scozzese, guidate dalla Royal Bank of Scotland. Torneremo avanti su questo esempio, ma cosa succederebbe se il Regno Unito entrasse nell’Eurozona? Si dovrebbero modificare i trattati per tener conto che nell’ordinamento interno britannico le banche centrali sono piú d’una? Crediamo di no, e infatti non è affatto necessario.

Quindi, su autorizzazione della BCE, noi emetteremmo le nostre banconote. Nessun impegno comunitario violato. Nessuna modifica ai trattati.

I successivi articoli, relativi al funzionamento interno della BCE, non comportano ancora problema alcuno per la presenza di un ulteriore istituto centrale di emissione al suo interno. L’unico punto critico, forse, sarebbe quello che i conti macroeconomici della Sicilia (debito pubblico, bilancia dei pagamenti, interessi…) sarebbero necessariamente considerati distinti da quelli dell’Italia ai fini della permanenza della Sicilia nell’area dell’Euro. Ma è proprio questo lo spirito dell’art. 40 dello Statuto: considerare a sé la bilancia dei pagamenti siciliana. Se ci fossero forti e sistematici squilibri nella nostra bilancia dei pagamenti si potrebbe finire “commissariati” da decisioni urgenti presi dal SEBC. Parliamoci chiaro: l’economia siciliana è un’economia malata. Nasconderla dentro quella italiana da un lato non fa diagnosticare la malattia, ma dall’altro non ne avvia nemmeno la cura! Crediamo però che questo sia un rischio da correre. La Sicilia ne uscirebbe con i conti a posto e ritornerebbe nell’alveo dei paesi civili. Ma facciamo pure i catastrofici: ci “buttano fuori” dall’Eurozona perché non abbiamo i conti a posto. A quel punto avremmo davvero una moneta del tutto nostra e sarebbe uno scenario completamente diverso, non tutto fatto di ombre. La moneta completamente separata, per qualche tempo, prima di ricongiungerci nuovamente alla grande famiglia europea, servirebbe a far migliorare le nostre esportazioni ed a favorire l’insediamento produttivo, e quindi a ridurre la disoccupazione. Ma – ripetiamo – è solo un’ipotesi catastrofica per andare incontro ai soliti “uccelli del malaugurio”. Nell’ordinarietà degli eventi la Sicilia diventerà un paese europeo normale, con le proprie riserve monetarie come tutti gli altri e in piena unione monetaria con l’Italia e con l’Europa, senza che l’uomo comune nemmeno se ne accorga nella vita di tutti i giorni.

Il successivo protocollo n.18, sul funzionamento della BCE e del SEBC, lo riportiamo per brevità per sommi capi. In sostanza in esso si aggiunge la possibilità, sempre sotto la guida del SEBC, per le singole banche centrali, di controllare anche la moneta scritturale “emessa” dalle banche per mezzo delle riserve frazionarie. Il SEBC definisce solo riserve “minime”. In teoria, torneremo sul punto avanti, la Sicilia (ma anche qualunque stato europeo), se volesse, potrebbe sperimentare sistemi di emissione monetaria piú equi, riducendo la quota di moneta emessa dalle banche commerciali e aumentando la quota emessa dal settore pubblico (banca centrale per conto dello stato, da noi per conto della regione-stato): riforma questa che non darebbe alcun potere di “emissione” alla politica in quanto le quantità di moneta sarebbero sempre decise tecnocraticamente a livello europeo. Sul punto, e sui possibili benefici, torneremo piú avanti.

La banca centrale siciliana parteciperebbe al capitale della BCE in funzione di popolazione e PIL siciliano (saremmo “piccoli” ma non certo gli ultimi). Una parte delle riserve, in deroga al nostro art. 40, dovrebbe essere devoluta alla BCE come recita il suddetto protocollo. Ai sensi dell’art. 31 del suddetto protocollo, le altre riserve, sempre sotto la supervisione della BCE, sarebbero gestite dalle banche centrali (da noi leggasi “camera di compensazione, etc.”). Sempre nello stesso articolo si parla di un limite al di sopra del quale le riserve delle banche centrali sono qualificate come “eccedenze” (quelle derivanti dall’eventuale surplus valutario di cui parlavamo al punto precedente). Queste sono, finalmente, e almeno teoricamente, disponibili! Sempre previo parere favorevole della BCE. Parere comunque non cervellotico o arbitrario, ma finalizzato a garantire la coerenza della politica monetaria europea. E qui c’è spazio per l’applicazione dell’art.40. Le eccedenze strutturali di riserve sarebbero infatti destinabili “ai bisogni della Regione”. E il gioco, come si suol dire, è fatto. Certo c’è il parere previo della BCE. Ma questo dev’essere tecnicamente motivato (per un eventuale diniego) sulla base di comprovate possibilità che ciò crei ad esempio inflazione o altro disturbo serio all’economia europea, non una semplice “antipatia” nei nostri confronti…

Se residuale può apparire nel breve termine questo vantaggio (nel 1946 eravamo in surplus commerciale strutturale, mentre oggi siamo in deficit grazie anche a 60 anni di abbraccio mortale con mamma Italia e con le sue politiche assistenziali), non cosí può dirsi per il “reddito monetario” delle banche centrali. La devoluzione alla nostra del reddito monetario di competenza (in breve i proventi per banconote e moneta scritturale emessa), sarebbe automaticamente “girata”, fatti salvi i costi di gestione, magari maggiorati da uno spread, alla Regione Siciliana. E qui è la portata rivoluzionaria dell’art. 40 dello Statuto! La Regione non chiede a prestito la moneta per spendere, né la Sicilia chiede a prestito le valute estere per importare, ma se le gestisce da sé. A quanto ammonterebbe il risparmio? Difficile da calcolare “a lume di naso”. Ma piccolo o grande che sia il beneficio per le nostre finanze è assicurato e non pare trascurabile. E quel che appare ancor piú strano, ciò avverrebbe solo con “l’applicazione congiunta” di Statuto e Trattato dell’Unione, senza nessuna riforma legislativa di alcun tipo. E, ancor di piú, non chiediamo sacrifici a nessuno. Questo reddito sarebbe unicamente frutto del nostro lavoro e non dai trasferimenti dal Continente dei quali siamo continuamente accusati. Semmai il Continente dovrebbe fare il “solo” sacrificio di rinunciare ai redditi monetari maturati sull’economia siciliana, dovrebbe fare il sacrificio di non prestarci piú la moneta che ci serve per le transazioni facendocela pagare con un’imposta occulta che prende la via dalla Sicilia verso Roma e che tanto pesa sulle nostre tasche.

Certo, però, è che alcune norme attuative di quelle precedentemente esposte dovrebbero essere disposte, tanto a livello regionale, quanto a livello comunitario, quanto a livello nazionale italiano. Ma – questo sí – sarebbe un tecnicismo davvero inopportuno in questa sede. Quel che ci interessava era la fattibilità giuridica dell’autonomia valutaria, e questa resta dimostrata da quanto precede. A titolo di esempio si indica soltanto l’incostituzionalità (per conflitto con il nostro art. 40) dell’art. 2 del Decreto Legislativo n. 43 del 1998, laddove stabilisce che la Banca d’Italia è la banca centrale della Repubblica italiana, in chiara applicazione dei trattati europei. Formulazione piú corretta dovrebbe essere: “Nel territorio della Repubblica Italiana le funzioni di Banca Centrale sono svolte dalla Banca d’Italia per tutte le regioni che la compongono, ad eccezione della Sicilia, per il cui territorio le funzioni di banca centrale sono svolte da…”; e cosí pure di conserva dovrebbero essere adattate le norme interne dello Statuto della Banca d’Italia. Nessuno gridi allo scandalo: la Costituzione è fonte di diritto superiore ad un qualunque decreto legislativo. Se la Costituzione ci garantisce quest’autonomia monetaria, perché non prendercela?

 

 

3. Praticamente già esiste o è esistita

 

Rispetto alla possibilità e legittimità giuridica, ampiamente dimostrata, già intravediamo un altro tipo di obiezione: “non può funzionare”.

Ebbene, tale affermazione non ha bisogno di astratti ragionamenti analitici per farsi smontare; essa è platealmente falsificata dal fatto che l’autonomia monetaria di una regione, nei termini sopra descritti, e quindi in unione monetaria con lo stato di appartenenza, è fatto storicamente esistito ed ancora esistente.

Nel primo caso (esistenza storica) l’esempio proviene proprio dall’Italia che, fino al 1926 vedeva la compresenza di tre istituti di emissione per il proprio territorio (addirittura sei prima del 1893): la Banca d’Italia, per l’Italia centro-settentrionale e per la Sardegna, il Banco di Napoli per l’Italia meridionale (nel territorio corrispondente all’antico Regno di Napoli), il Banco di Sicilia per la Sicilia. E, guarda un po’, le riserve piú floride erano allora proprio quelle nostre.

Nel secondo caso (esistenza attuale) è proprio cosí che funziona oggi il sistema monetario in Scozia, parte integrante del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord.

Studiamo partitamente i due esempi.

Per capire il primo caso (potestà di emissione separata per la Sicilia dal 1860 al 1926) bisogna contestualizzare quel regime finanziario. Intanto nell’Ottocento era ancora aperto il dibattito tra i sostenitori della necessità di un unico istituto di emissione e i liberisti che erano favorevoli alla concorrenza tra piú istituti. Non entreremo in questo dibattito, inessenziale in questa sede, se non per puntualizzare alcuni elementi cruciali. Primo: i sostenitori della “banca unica”, che poi prevalsero in buona sostanza, presentavano una strana alleanza tra “dirigisti” nostalgici dell’Ancien Regime e grandi potentati finanziari legati al capitale delle “banche centrali di emissione”, la cui differenza tra loro era soltanto se tale monopolio dovesse essere gestito dallo stato, magari mediante apposito ente pubblico, o da un ente “indipendente” (dalla politica, cioè controllato da banchieri privati); dall’altro lato stavano i “liberali puri”, sostenitori della pluralità di istituti di emissione, forti dell’esempio scozzese (sul quale torneremo piú avanti). Secondo: nell’Ottocento siciliano la corrente di pensiero “liberale pura” era fortissima in Sicilia, rappresentata soprattutto da Francesco Ferrara, autorevole nella politica post’unitaria, seppur rappresentante minoritario dei liberali “confederalisti” contro i dominanti “ascari” unionisti. Questi fu sempre propugnatore di una “libera emissione” o, in mancanza di questa, di un mantenimento di un equilibrio tra piú istituti di emissione pubblici, male minore rispetto ad un “dispotico monopolio privato” dell’emissione. Terzo: in effetti, un po’ per le divisioni interne al “fronte” settentrionale, un po’ per la debolezza del nuovo stato unitario, un po’ per la forza oggettiva del Banco di Napoli (il piú capitalizzato), un po’ per la resistenza coraggiosissima dei Siciliani (il cui Banco era, in relativo all’economia di riferimento, il piú florido di tutti), fatto sta che una certa “libertà” fu inevitabile all’indomani della c.d. Unità, raro esempio di sconfitta dei piemontesi che dovettero rimandare il saccheggio a tempi migliori.

In particolare la presenza di due banche centrali toscane creava, almeno in quella regione, una vera e propria concorrenza di emissione, relativamente estesa a tutto il centro-nord. La “Banca Sarda”, privata, ribattezzata chissà perché “Banca Nazionale” (e poi si dice che non fu una conquista…) però assunse una posizione dominante perché, per legge, era l’unica ad emettere biglietti validi in tutte le regioni, mentre le altre erano limitate al territorio del Granducato di Toscana o del Regno delle Due Sicilie, era l’unica a controllare l’emissione di monete metalliche e ad essere riconosciuta per i pagamenti interregionali. Nel frattempo si impedisce, all’indomani della conquista della Sicilia che decolli anche qui il “banco privato di emissione”, lanciato per iniziativa dei soliti Florio. Il controllo delle banche toscane viene a poco a poco raggiunto mediante la scalata del relativo capitale sociale, mentre al sud, dove gli istituti di emissione sono pubblici, ci si deve limitare ad aprire “filiali”.

Il colpo di grazia, però, fu quello di introduzione del corso forzoso per i soli biglietti della Banca Nazionale: i suoi biglietti erano garantiti da riserve auree solo per un terzo, quelli dei banchi meridionali lo erano per intero! Anche qui, però, si deve contestualizzare il tutto. Intorno al 1860, intanto, quasi sconosciuto era in Italia l’utilizzo della moneta bancaria propriamente detta per effettuare pagamenti: il problema della “riserva frazionaria” delle banche commerciali e della moneta scritturale, oggi cosí importante, era allora del tutto residuale. Ancora, nella circolazione di moneta legale, il 90 % circa era ancora costituito da monete metalliche e il 10 % circa da biglietti di banca; proporzione questa che sarà rovesciata già soltanto alla vigilia della I guerra mondiale. Si trattava, cioè, di un potere crescente, rilevante, ma ancora relativamente debole.

L’unificazione delle banche centrali del centro-nord e la nascita della Banca d’Italia (1893) non costituí un vulnus particolarmente grave per i banchi meridionali. Essi continuarono nelle loro emissioni sino al 1926, seppur soggetti alla copertura integrale delle emissioni, ed alla subalternità alla Banca d’Italia per le quantità di moneta emessa. Diciamo che dopo il 1893 cessò il liberismo monetario e i due banchi meridionali furono ridimensionati a banchi d’emissione regionale (proprio come il nostro progetto prende in considerazione) nell’ambito di una coordinata politica monetaria nazionale. Le riserve del Banco di Sicilia erano le riserve, valutarie ed auree, della Sicilia stessa, frutto del suo surplus. I Siciliani fino al 1926 si stampavano le banconote che servivano loro senza chiederle in prestito a nessuno. Il sistema non aveva alcun difetto tecnico, funzionava alla perfezione. L’unico problema, per l’Italia, era come appropriarsi delle riserve siciliane. La dittatura fascista fu un’ottima occasione per farlo. Il decreto legge del 1926 poteva senbrare anche una delibera transitoria; cosí non fu e il R.D. del 1936 proclamò la Banca d’Italia “unico istituto d’emissione”. Considerando che la conquista siciliana dell’autonomia monetaria è del 1946, che nel mezzo ci fu una dittatura e una guerra mondiale, resta definito come una sovranità monetaria siciliana sia tutt’altro che qualcosa che stia fuori dal nostro ordinamento. Altro sono gli abusi centralistici dello stato italiano e del “suo” istituto di emissione (ma fino a che punto veramente suo? se i “partecipanti” sono le stesse banche private…).

Veniamo ora al caso “vivente” di funzionamenteo di un istituto di emissione regionale, cioè quello scozzese. Sarà perché l’Inghilterra è proprio la patria delle banche centrali, resta il fatto che in essa sono sopravvissuti piú che altrove segni della precedente maggiore libertà monetaria. La Scozia è stata progressivamente assorbita monetariamente dall’Inghilterra, ma non le si è potuto togliere del tutto il diritto di emissione delle sue banche. Ad oggi la politica monetaria del Regno Unito è centralizzata nelle mani della “Bank of England”, la quale decide quanta moneta (metallica, cartacea o scritturale) debba girare nello stato. Non tutta tale moneta è però emessa direttamente dalla stessa banca. Una gran parte della moneta è oggi bancaria, cioè scritturale, ed è emessa dalle banche commerciali (fra le quali, curiosamente, concorrono anche le banche centrali britanniche) e la natura di vera moneta e non piú di titolo di credito di tali emissioni è ormai incontrovertibile: le banche pagano in generale i loro depositanti che vanno all’incasso con…altri depositi su altre banche o con piccole riserve valutarie o, al limite (vedasi caso Northern Rock) con riserve prestate dalla Bank of England. È cosí ormai in tutto il mondo civile e progressivamente la moneta bancaria sta subendo lo stesso processo storico che passò la moneta cartacea nella sua transizione da titolo di credito convertibile a moneta legale. La moneta metallica è coniata dalla Corona (formalmente, cioè dal Governo). La moneta cartacea, per il territorio scozzese, è stampata da un consorzio di tre banche: Bank of Scotland, Royal Bank of Scotland, Clydesdale Bank. Le banconote emesse dalle tre banche (ricchissime) non sono teoricamente moneta legale, ma sono accettate da tutti ugualmente. Ogni tentativo di annessione monetaria da parte dell’Inghilterra non ha mai avuto successo. In pratica le tre banche scozzesi si trovano esattamente come il Banco di Sicilia prima del 1926. Le tre banche sono dette anche “cleaning banks”, cioè banche che effettuano ruolo di “Camera di compensazione”….piú chiaro di cosí…è proprio l’esatto dettato del nostro Art. 40.

Cosa succederebbe se, teoricamente, il Regno Unito decidesse di entrare nell’Unione monetaria europea? Nulla di grave per le tre banche: o sarebbero rappresentate dalla Bank of England nel “board” mantenendo le proprie competenze regionali, o dovrebbero adeguare i propri statuti costituendo un unico istituto per la Scozia che partecipi autonomamente al SEBC: cioè le due soluzioni tecniche che noi stessi abbiamo evidenziato come astrattamente possibili per la Sicilia. Una cosa è certa: gli scozzesi non rinuncerebbero certo per questo alla propria autonomia monetaria! A onor del vero, infine, va anche ricordata una differenza sostanziale tra l’autonomismo monetario siciliano e quello scozzese: le banche scozzesi sono private e il loro reddito monetario va alla Scozia molto indirettamente; il nostro art. 40 parla di una banca pubblica. Ma la differenza, irrilevante sul piano della “fattibilità” del progetto è tutta – è bene ricordarlo – a favore del nostro modello e non del loro.

Un’ultima precisazione prudenziale è sull’entità di questo reddito monetario. Ci sono in circolazione circa 3 miliardi di sterline di banconote scozzesi, cioè circa 5 miliardi di euro. Questo è però solo un fondo, non un flusso, quindi ogni anno le banche immettono nel mercato soltanto il “delta” delle nuove sterline; poca roba in fondo. Il reddito monetario, anche comprensivo di quello di origine bancaria, anche comprensivo delle “eccedenze” valutarie dalle transazioni con l’estero, difficilmente per la Sicilia potrebbe a regime superare il mezzo miliardo o al limite il miliardo di euro annui. Considerato che il bilancio attuale della Regione naviga intorno ai 25 miliardi e che si potrebbe anche espandere se la Sicilia si facesse carico di ogni spesa pubblica nel nostro territorio, va detto che la “piccola politica monetaria” consentita da questo regime è sí importante, ma non certo risolutiva di ogni problema. Questo non significa che sia trascurabile. Solo mettendo da parte le attese messianiche si potrà realmente mettere mano alla soluzione dei problemi. Solo creando strutture stabili e nelle nostre mani potremo progettare stabilmente un nostro futuro.

 

4. Ma a cosa servirebbe nell’immediato?

 

A questo punto, dimostrato che il sistema è legittimo e possibile, vanno valutati con esattezza i vantaggi che esso comporta. Si dimostra nel seguito che essi sono bastanti a imprimere una vera marcia in piú all’economia isolana e che non vi è ragione alcuna di rinunciare a questo strumento. Si precisa ancora che tali vantaggi saranno in questo punto valutati in modo “convenzionale”, cioè senza approfittare dell’autonomia monetaria per fare radicali riforme del sistema monetario stesso, sia pure nei ristretti ambiti dell’Isola (ristretti rispetto all’intero Continente), e senza “varianti” o utilizzi particolari che saranno invece trattati nei punti successivi.

Per considerare tali vantaggi dobbiamo riepilogare per sommi capi come funziona il “combinato disposto” dell’Art. 40 con le altre norme statutarie e costituzionali. La Sicilia ha una sua banca centrale pubblica che vigila sul credito e che svolge in Sicilia le funzioni previste dai trattati comunitari come Banca Centrale; partecipa autonomamente al SEBC e gestisce, per mezzo di apposita Camera di compensazione, le riserve valutarie per le transazioni con l’area extra-euro (resto del mondo) secondo le direttive della BCE. Si prescinde, infine, dalla piccola variante della coniazione della moneta metallica (il gettito da “signoraggio” per questa voce è trascurabile ed è questione affidabile alla negoziazione tra Italia e Sicilia, anche in un secondo momento). La legislazione sul credito, nel rispetto degli obblighi europei, della Costituzione italiana e dei principi generali dell’ordinamento italiano, è devoluta all’Assemblea Regionale Siciliana; le relative funzioni amministrative sono di competenza del Governo Siciliano, eventualmente delegabili alla nostra banca centrale. La banca centrale, in quanto pubblica, e in quanto obbligata a destinare le riserve “ai bisogni della Sicilia”, sarebbe infine “gestore” della moneta pubblica emessa, ma non proprietaria. Non potrebbe appropriarsi, quindi, dei redditi monetari conseguiti dalla propria attività di emissione, ma dovrebbe, trattenuti i costi di gestione (ivi compreso, se vogliamo, un “profitto normale”) devolverli integralmente alla Regione Siciliana.

A questo punto i vantaggi fondamentali sono quattro e non tutti strettamente di finanza pubblica:

·         attribuzione alla Regione Siciliana del reddito monetario spettante alla Sicilia per la sua partecipazione autonoma al SEBC;

·         attribuzione alla Regione Siciliana, previo parere della BCE, delle eventuali eccedenze di riserve valutarie ed aurifere;

·         gestione autonoma del credito nell’interesse dell’economia siciliana;

·         disponibilità diretta della valuta estera per banche ed altri operatori siciliani senza doverla chiedere a prestito ad istituzioni finanziarie italiane.

 

I secondi due vantaggi sarebbero a beneficio dell’economia siciliana tutta, e non solo dell’azienda regionale pubblica. L’effetto congiunto darebbe un impulso dirompente a tutte le politiche di settore oggi sacrificate sistematicamente dall’interesse nazionale italiano. Vediamole con ordine.

Il primo “gettito”, forse non ingentissimo, difficile stimarlo in un’analisi teorica come questa, andrebbe a discapito di analogo gettito che oggi viene percepito dalla Banca d’Italia e quindi dai suoi “partecipanti” (per lo piú grandi gruppi bancari italiani). Il sacrificio per le grandi banche italiane sarebbe modesto, il gettito per noi, grande o piccolo che sia, una fonte di finanziamento in piú per la spesa pubblica o per la riduzione dell’imposizione fiscale (ciò che a sua volta genererebbe un’espansione della base imponibile per ovvie ragioni, quale l’attrazione di investimenti, etc.). In altre parole questa somma, frutto del lavoro dei siciliani, sarebbe distolta da “profitto delle banche” come è oggi e destinata o a maggiori servizi ai cittadini o a un alleggerimento di carico fiscale che, comunque, non intaccherebbe le ragioni dello stato italiano.

Il secondo nel breve termine è piú una questione di principio che altro. Dovrebbe passare almeno una decade, nonché una seria battaglia per l’appropriazione dei proventi delle esportazioni di prodotti energetici, prima che questa voce d’entrata possa attivarsi e diventare significativa. Nel medio termine, però, la Sicilia riprenderebbe la sua storica vocazione di paese a bilancia commerciale attiva e potrebbe, con questi proventi, costituire un fondo per lo sviluppo e la diversificazione economica come ha fatto la Norvegia (che, chissà perché di banca centrale europea proprio non vuole saperne, almeno finché le grandi consorterie globali non la costringeranno). Anche qui, piccola o grande che sia la fonte, meno tasse o piú servizi, o entrambe le cose. E chissà che l’effetto congiunto non possa innescare circoli virtuosi ad oggi non esattamente prevedibili.

Il terzo aspetto consentirebbe alla Sicilia di ricostruire un sistema bancario devastato da decenni di colonialismo italiano. Importante in sé, per le aziende bancarie siciliane, anche a capitale esterno, ma soprattutto per l’economia siciliana, delle imprese come delle famiglie. Oggi non decidiamo le condizioni del nostro credito, esportiamo risparmi, otteniamo qualche prestito da aguzzini e basta. La possibilità di un’azione concertata tra la banca centrale siciliana ed il sistema bancario siciliano che verrebbe a crearsi doterebbe la Sicilia di accessi finalmente liberi alle risorse finanziarie necessarie allo sviluppo. Come dire: finalmente diverremo un paese normale. Questo vantaggio appare anche superiore a quello dell’autonomia monetaria in senso stretto. Non ci sarebbe pericolo di inefficienze, perché la libera circolazione di capitali e il diritto di insediamento di banche di altri paesi europei garantirebbero il pieno funzionamento dei nostri mercati finanziari. Soltanto un po’ meno di colonialismo e un po’ piú di concorrenza rispetto a certi grandi gruppi.

Infine, con l’ultimo punto, le imprese che avessero bisogno di valuta estera per importare, la potrebbero chiedere al sistema bancario siciliano che non dovrebbe chiederla a prestito da quello italiano. Ancora una volta meno dipendenza dalle banche italiane, economia piú libera.

In pratica il sistema, anche nella sua minimale applicazione statutaria, provoca una generale emancipazione della Sicilia dai poteri bancari forti e non causa alcun sacrificio al contribuente italiano medio. Per questa ragione sappiamo già chi sarà il nostro principale oppositore e come pagherà i mezzi di informazione e i politici per combattere questa nostra “guerra d’indipendenza” che poi è soltanto lotta per l’applicazione di un “pezzo” della Costituzione italiana. Ma i Popoli che decidono di liberarsi (anche dal giogo degli strozzini) non saranno mai fermati dal solo denaro, mai, tutt’al piú dall’ignoranza.

 

5. Possibilità di riforma del sistema

 

Andiamo ora a vedere come un’Assemblea Regionale “intelligente” potrebbe sfruttare ancora meglio un sistema monetario consegnato nelle sue mani e modificabile, sempre nel rispetto di obblighi nazionali ed internazionali.

Nei limiti sopra previsti, e senza contrasto con la normativa italiana (in quanto applicabile in Sicilia) e con la normativa europea, il sistema monetario, una volta manovrabile, potrebbe anche essere riformato.

Vogliamo subito prendere le distanze, però, da una polemica ricorrente in una certa pubblicistica, quella cosiddetta del “signoraggismo”. Si rinvia ad altri studi specializzati sul tema ma senza ombra di dubbio si può affermare in breve che si tratta di “visioni”, ora messianiche, ora semplicemente reazionarie, peraltro intrise di non pochi errori veri e propri di economia e di intrinseche contraddizioni. Detto questo, però, va detto che alcune delle argomentazioni dei signoraggisti, sfrondate dal “mito”, hanno un fondo di verità e che il “negazionismo” puro e semplice non fa che difendere il sistema attuale con alcune sue distorsioni di certo emendabili, sia pur restando in un’economia capitalistica di mercato, dimostrandosi a tratti non meno dogmatico del precedente. Queste sono in buona sostanza le seguenti:

          attualmente la moneta, all’atto della sua emissione (il c.d. fiat money) è di “proprietà” dell’ente che la emette se essa è moneta legale (metallica o cartacea, dello stato la prima, della banca centrale la seconda), mentre è “teoricamente” un debito convertibile in moneta legale se è emesso dal sistema bancario (ivi comprese le banche centrali);

          l’emissione di moneta, oltre a fruttare in conto capitale, frutta anche in conto interessi, poiché l’ente emittente la presta a interesse, infatti i trattati europei parlano di “reddito monetario” che altro non è se non l’interesse della moneta creata e data a prestito;

          le banche centrali non sempre sono istituzioni realmente pubbliche, nonostante le formali dizioni che assumono nella legge;

          la progressiva diffusione della moneta bancaria (riduzione della riserva frazionaria) sta delegando progressivamente al sistema bancario, peraltro in modo sempre meno controllato, l’emissione di moneta che dovrebbe restare una funzione pubblica;

          la stabilità dei prezzi ha senso in un’economia stazionaria, mentre è completamente priva di senso in un’economia segnata da shock dell’offerta o comunque in presenza di una dinamica dell’offerta aggregata; ridefinendo correttamente gli obiettivi della politica monetaria l’indipendenza delle relative autorità resta però un fatto positivo.

Sebbene non sia questa la sede piú appropriata per tali approfondimenti, una Sicilia autonoma dal punto di vista monetario potrebbe porre mano a queste distorsioni.

1° punto: La moneta, all’atto della sua emissione, non può essere privata. Almeno la moneta legale, fittiziamente iscritta al passivo degli stati patrimoniali delle banche centrali (retaggio di quando essa era un titolo di credito “pagabile a vista al portatore”, un po’ come oggi lo sono i depositi bancari in conto corrente), dev’essere emessa tutta non dallo Stato, ma certamente per conto dello Stato (Regione nel nostro caso). Oggi lo Stato emette le monetine (e ne introita il guadagno, come per una piccola imposta), mentre le banconote sono emesse dalla Banca d’Italia (e dalle altre banche del SEBC, compresa la BCE). Fino a Maastricht (non nell’800) lo Stato aveva la possibilità (molto teorica, quasi mai usata) di stampare biglietti di stato in concorrenza con la Banca d’Italia. Oggi questa possibilità è preclusa. Rispettando il trattato dell’UEM, la Sicilia può lasciare che la propria banca centrale emetta la quantità di banconote stabilita dalla BCE, ma può benissimo attribuirne la proprietà direttamente alla Regione Siciliana, lasciando alla banca centrale un compenso per la stampa e la “gestione” (consegna alla Regione, immissione nel circuito bancario, etc.). In tal modo i proventi da signoraggio andrebbero ai cittadini anziché ai banchieri. Non si dica che si crea inflazione, per carità. La moneta cartacea è una piccola frazione della vera moneta in circolazione e comunque, rispettando la normativa europea, la quantità emessa non è in alcun modo decisa a livello locale. Abbiamo controllato i trattati. Parlano di emissione riservata alle “banche centrali”, ma non dicono nulla sulla proprietà della moneta emessa. Perché dunque non fare questa piccola riforma che darebbe ristoro alle esigenze della cittadinanza?

2° punto: Se la banca centrale (o le banche, ma per la moneta “bancaria” il discorso è più complesso) emette tutta la nuova moneta necessaria ogni anno al sistema “per conto” della Regione, perché su questa devono essere pagati interessi? Questi non sarebbero piú pagati sulla nuova moneta emessa, che non sarebbe piú del settore bancario ma dello stato-regione, ma solo per ulteriori capitali (non in forma monetaria) che venissero presi a prestito dal settore pubblico, realizzando cosí un sistema piú equo e soprattutto meno oneroso per i cittadini.

3° punto: Sebbene la nostra Banca Centrale con la sua Camera di Compensazione sia soltanto “ente gestore” della moneta e delle riserve, non sarebbe bene che, pur dando ogni garanzia di autonomia gestionale, contabile, operativa nei confronti del potere politico, esso fosse ente pubblico a tutti gli effetti, senza l’oscura presenza di “partecipanti” privati, come in Banca d’Italia, che poi sono gli stessi enti che la banca centrale dovrebbe controllare?

4° punto: non si può portare al 100 % (o comunque elevare significativamente, poniamo al 50 %) la riserva frazionaria senza eliminare il ruolo di intermediazione delle banche private? I trattati europei parlano solo di riserve frazionarie minime, non massime. La Sicilia potrebbe adottare quindi la riforma che nel 1946 Peròn adottò per l’Argentina (già pensiamo all’ironia, l’iperinflazione sudamericana…attenti! quella venne dopo il 1956, coi militari, quando tornò il sistema convenzionale, prima ci fu solo qualche tensione perché il governo tentò di forzare l’autonomia del banco centrale nell’emissione di moneta). In pratica si tratterebbe di questo. Le banche possono prestare liberamente tutto il capitale proprio e tutti i depositi non monetari (dalle obbligazioni fino ai depositi di risparmio, in ordine di decrescente liquidità); non potrebbero prestare ma dovrebbero depositare integralmente presso la banca centrale i depositi monetari rappresentati dai conti correnti o dalle carte ricaricabili (o – non volendo essere radicali – ne dovrebbero depositare almeno il 50 %). Le banche private continuerebbero a gestire i conti correnti per tutte le operazioni di tesoreria a favore di famiglie, imprese ed enti pubblici e ne prenderebbero le commissioni, ma i conti sarebbero accesi (in toto o al 50 %) presso la banca centrale. Quando vogliono prestare somme eccedenti quelle disponibili (mezzi propri piú passività non monetarie) si “fanno prestare la moneta necessaria” dalla Banca centrale che la concede nei limiti della politica monetaria fissata (nel nostro caso quella europea). Non è vero che questo equivarrebbe alla socializzazione delle aziende di credito: queste continuerebbero a lucrare sul differenziale tra interessi attivi da un lato e dividendi e interessi passivi dall’altro, nonché sulle commissioni per i servizi di tesoreria. Non lucrerebbero piú invece, o lucrerebbero molto, molto meno, sull’emissione di moneta che oggi fanno e che prestano al mondo intero! Con il principio dell’home country control ciò varrebbe, in tutta Europa, solo per le aziende di credito aventi in Sicilia la sede legale, mentre le altre banche continuerebbero ad operare, anche in Sicilia, come hanno sempre fatto. E tuttavia in Sicilia, o dove queste banche sono presenti, il denaro avrebbe un costo molto piú equilibrato e il sistema fatalmente contagerebbe il Continente intero. Oggi una banca che concede un mutuo non prende questi soldi da nessuna parte: se li accredita da sé in un conto corrente acceso al mutuatario, cioè è come se li stampasse… Questo non deve essere piú possibile, perché in tal modo la Banca si sta appropriando di una funzione pubblica, si fa restituire un capitale che ha creato dal nulla più un giusto interesse. Noi riteniamo che si debba fare restituire solo l’interesse ma il capitale, preso a prestito dallo Stato, che lo ha emesso per mezzo di decisione della Banca centrale, dev’essere restituito allo Stato (Regione), anche con un interesse simbolico, ma al limite anche senza alcun interesse. Diciamo questo perché la moneta bancaria, da tutti considerata pacificamente una passività, sta facendo la stessa fine con le banconote che in passato la moneta cartacea ha fatto con quella metallica: sempre meno convertibile in banconote e sempre meno convertita. I pagamenti sempre piú attraverso i POS…Di fatto in un futuro non troppo lontano le monete cartacee potranno contare quanto oggi contano le monetine metalliche…cioè nulla o quasi. E allora in cosa si “convertiranno” i depositi in c/c? Ovvio! In altri depositi in c/c! Come oggi una banconota è convertibile…in un’altra banconota. È quello che sta avvenendo a poco a poco senza che ce ne accorgiamo. Nel momento in cui un byte nella memoria di un sistema informativo bancario è accettato comunemente come mezzo di pagamento, esso non è piú un debito della banca, esso è moneta! Noi non siamo contro questo sistema e non vogliamo tornare al Gold Standard, né necessariamente alle cosiddette monete complementari e cosí via. Ma se questo è il sistema monetario – e lo accettiamo pienamente – è bene che l’emissione di moneta, qualunque forma abbia, torni nelle mani pubbliche. O almeno in gran parte e con un controllo stretto sulla restante parte. L’alternativa è soltanto il monopolio o l’oligopolio privato nell’emissione della moneta, che è come dire una sorta di feudalesimo in cui si appalta ad un privato una funzione naturalmente pubblica.

5° punto (l’unico non attuabile con la sola autonomia ma solo con la piena sovranità monetaria): Tecnocrazia sí, ma con quali fini? La stabilità dei prezzi…Meglio la stabilità del valore della moneta…Non è lo stesso direte? No! Non sempre. Se l’economia è stazionaria le due cose sono sinonimi, se l’economia cresce o decresce no, e lo dimostriamo brevemente. Se l’economia cresce (nuove scoperte, aumenti di produttività, nuove infrastrutture, nuove risorse ambientali sfruttate) i prezzi DEVONO SCENDERE a parità di valore della moneta, perché la società deve poter comprare di piú, perché l’uomo è diventato piú ricco nei confronti della natura. Se succede il contrario (devastazioni ambientali, scarsezza di risorse, declino, sovrappopolazione, etc.) i prezzi DEVONO SALIRE a parità di valore della moneta, perché siamo piú poveri e dobbiamo spendere di meno. Se salgono i prezzi in recessione non è inflazione, signori di Francoforte, la moneta vale sempre lo stesso, sono i beni e servizi che costano di piú in termini reali. Ci vuole il nobel per capirlo? Quindi sono i tassi d’interesse che devono oscillare in una fascia normale piú che i prezzi. Se l’economia cresce e i  prezzi scendono non è deflazione, è maggiore ricchezza. Inutile immettere liquidità che fa precipitare i tassi facendo indebitare fino al collo i cittadini per poi strangolarli in recessione. Al contrario quando i prezzi salgono per recessione, inutile fare strette monetarie che uccidono le economie attraverso tassi surreali. Non ci dilunghiamo sul tema perché troppo tecnico. Rileviamo però due cose. Per primo che il sistema, con l’obiettivo un po’ ipocrita della stabilità assoluta dei prezzi (e non della piú corretta stabilità di valore del modulo monetario) fa indebitare al di là delle proprie possibilità il sistema nelle espansioni e lo affoga nelle recessioni, indovinate nell’interesse di chi. Per secondo, poi, però, questo carattere strutturale delle politiche monetarie va deciso al livello al quale si è demandata la politica monetaria. Oggi è data ad un gruppo di banche centrali alle quali non corrisponde nessun reale potere politico come contraltare. Noi, in questo saggio, abbiamo dato per scontata l’attuale situazione monetaria europea, ma non ne siamo per questo entusiasti. È un dato di fatto, punto e basta, ma ci si lasci almeno dire che la politica monetaria (e quindi la moneta) dev’essere al livello di stato sovrano. Se si è europeisti, solo con una vera unione politica si potrebbe parlare di una moneta unica, e lí tentare di emendare il sistema; se si è o ci si sente italiani, il livello dev’essere quello della Repubblica italiana; se si è separatisti siciliani, il livello dev’essere quello dell’Isola. Non esiste una dimensione ottimale della moneta; la dimensione ottimale è quella dello stato di riferimento. Ci sono infatti monete di paesi minuscoli che sono stabilissime e monete di imperi che sono allo sbando. Cosí invece abbiamo una somma di stati sovrani che si è privata del potere monetario e lo ha affidato…a chi? Boh!?

Concludiamo sul punto.

Le riforme qui indicate non sono a rigore necessarie, sono solo possibili. La forma minima di applicazione dell’art. 40 del nostro Statuto è quella di cui al punto precedente.

Le riforme indicate sono liberali e capitalistiche, tutt’al piú con un qualche ruolo riconosciuto al pubblico laddove il mercato non c’è e non ci può essere (nell’emissione del bene “moneta”, il cui valore è determinato unicamente dalla scarsità e dall’accettazione del pubblico). Semplicemente correggono alcune distorsioni illiberali che oggi ha il sistema (diceva piú o meno il Ferrara: “Tutti i liberisti, quando si parla di banche diventano stranamente contrari alla concorrenza”).

Le riforme indicate avvierebbero analoghi processi in tutta Europa, e forse nel mondo (e fortissime reazioni da parte dei poteri bancari forti – prevediamo anche qualche linciaggio morale nei nostri confronti se questo saggio dovesse camminare troppo).

I benefici per la Sicilia sarebbero però incomparabilmente piú ampi rispetto alla piú modesta, ma comunque significativa, applicazione convenzionale di cui al precedente punto. In pratica il settore pubblico siciliano emetterebbe ogni anno la “nuova” moneta del sistema (quella cioè necessaria allo stesso senza creare inflazione, a meno che questa non sia invece esogena, cioè creata da shock dell’offerta). Il sistema pubblico vedrebbe cosí un’insperata fonte di finanziamento a costo zero con tutte le conseguenze che sono facili da immaginare (che “non” eliminerebbe le imposte – ribadiamo per i fanatici signoraggisti – né, per motivi qui non spiegabili in breve, del tutto la necessità di ricorrere talora a forme varie di indebitamento). Ma soprattutto il potere d’acquisto delle famiglie sarebbe finalmente “blindato” da una moneta vera, con un valore costante nel tempo. E poi il costo degli indebitamenti (per gli investimenti, per gli acquisti di case) sarebbe decisamente piú stabile, senza inopportuni servaggi al mondo bancario, ma anche con la sobrietà necessaria a non creare inutili ed eccessivi indebitamenti che, alla fine, generano solo dipendenza futura.

Potrebbero queste “nuove entrate” consentire di alleviare il disagio sociale degli ultimi, ad esempio attraverso un reddito minimo di cittadinanza per chi non riesce a inserirsi nel mercato del lavoro? Uno stipendio alle casalinghe? Una serie di bonus in natura per gli acquisti di prima necessità (pannolini, latte, pane, pasta,…)? Difficile dirlo a priori in un discorso analitico come il nostro. In ogni caso si tratterebbe di una scelta politica successiva, quando si dovesse decidere la destinazione del surplus derivante dalla liberazione monetaria della nostra terra e quando la sua entità fosse chiaramente accertata. Certo se strumenti del genere indicato sono usati accortamente, non in maniera distorsiva, disincentivando il lavoro, riteniamo che non solo siano possibili ma desiderabili, in quanto farebbero schizzare in alto il livello di qualità della vita e di sicurezza sociale al quale ci hanno abituati. Tutti ricchi no, lasciamo a casa le utopie! Chi vuole il benessere se lo dovrà sempre sudare (anche se meno che nell’attuale sistema predatorio), ma non piú fatalmente terra di emigrazione e di miseria. A tutti, finalmente, con queste modeste riforme, potrebbe con molta probabilità essere dato il diritto ad un’esistenza dignitosa, ancorché modesta.

 

6. Possibilità di applicazioni “parziali” (ma fino a un certo punto)

 

Se quello che abbiamo definito sopra è un processo di pieno dispiegamento delle potenzialità dell’articolo statutario in questione, prima in forma strettamente convenzionale, poi in forma estensiva, un po’ di realismo non guasta e di fronte a prevedibili fortissime resistenze si potrebbe pensare anche ad applicazioni minimali di questo dettato che ne raggiungano sostanzialmente alcuni fini. Per una completa attuazione dello Statuto ci si può anche accontentare di una certa gradualità (dopo che per 60 anni non s’è fatto niente).

In questo punto, quindi, vedremo come siano possibili anche soluzioni di compromesso realistiche ma non per questo poco interessanti.

In primo luogo l’autonomia monetaria potrebbe restare un fatto “interno” all’ordinamento italiano. In altre parole resterebbe la sola Banca d’Italia a rappresentarci nel SEBC, fatto salvo che poi i suoi compiti in Italia, tanto di vigilanza del credito, quanto di emissione di moneta e di detenzione delle riserve, verrebbero riservate per il territorio siciliano alla “banca pubblica di Sicilia” (ex Banco di Sicilia). Ovviamente se le funzioni sono garantite da accordi trasparenti l’effetto sarebbe quasi equivalente senza che, all’esterno, si percepisca l’Italia come un paese politicamente distinto dalla Sicilia. A fronte di questo apparente vantaggio (apparente, perché a vantaggio solo dell’Italia) c’è il rischio che nel delegare le funzioni monetarie al suo interno, in Banca d’Italia prevalgano accezioni minimali che restringano progressivamente le funzioni autonome della Sicilia quasi ad “ufficio staccato” di quello romano. Perché una strada del genere sia percorribile bisognerebbe almeno espropriare all’Unicredit la sua attuale partecipazione in Banca d’Italia, avuta per il tramite del Banco di Sicilia, e imporre una presenza siciliana nella governance dell’istituto italiano di emissione, con il compito specifico di vigilare affinché le nostre prerogative non siano messe sostanzialmente in discussione.

È possibile un’applicazione ancor piú minimale e letterale, con la presenza, cioè della sola “Camera di compensazione” ma senza l’istituto di emissione? A nostro avviso no, se non in una soluzione molto particolare al problema. Si potrebbe sostenere, detto altrimenti, che le “riserve” sono espressamente gestite in maniera autonoma, ma che l’emissione debba restare centralizzata perché non dispone altrimenti l’art. 40.

A confutazione di questa impostazione del problema si portano le seguenti argomentazioni.

Primo: l’autonomia riconosciuta alla Sicilia in materia di ordinamento del credito (art. 17 dello Statuto) presuppone comunque un ente di vigilanza autonomo o, in ogni caso, non lo esclude. Come farebbe la Banca d’Italia a vigilare correttamente sulle aziende di credito aventi sede in Sicilia se l’Assemblea volesse avvalersi delle sue facoltà e legiferare in modo distinto dal Parlamento (e seppur nei limiti dei principi e degli interessi generali della legislazione statale)? Di fatto l’autonomia del credito senza una separata autorità di vigilanza è un non senso.

Secondo: l’art. 40 non dice “è costituita una Camera di compensazione”, bensí “è costituita, presso il Banco di Sicilia, una Camera di compensazione”. Con ciò si presuppone che la Camera non possa funzionare se non come organo autonomo e specializzato di un istituto pubblico di credito.

Terzo: nella teoria e nella pratica la gestione delle riserve valutarie non è mai nettamente distinguibile dall’emissione della moneta.

In sintesi, dunque, l’articolo statutario pone alcuni punti fermi insormontabili: una banca pubblica centrale, che vigili sulle altre banche residenti, e che detenga le riserve valutarie. Può, al limite, questa banca centrale non emettere moneta? Forse, al limite, vanificando le finalità dello Statuto, costruendo un sistema farraginoso, si potrebbe anche tentare di farlo. Ma l’unico fine, in tal caso, sarebbe quello di boicottare l’Autonomia siciliana. Se l’istituto in parola governa e controlla il credito siciliano, inevitabilmente controlla la moneta emessa dal sistema bancario, moneta che – ricordiamolo – è la quasi totalità di quella messa in circolazione. E poi che senso avrebbe vietare ad un istituto che detiene le riserve di emettere titoli, coperti da quelle riserve, che sostanzialmente avrebbero valore di moneta?

Certo, al limite sí, potrebbe “vietarsi” la stampa di banconote in euro vere e proprie al nostro “Banco”, cosí come vietare alla Regione di coniare monetine, cosí, per una questione di principio. Ma come le banche scozzesi, detentrici di riserve, emettono banconote che “teoricamente” non sono moneta legale ma solo titoli di credito (da tutti però accettati comunemente), come il Banco di Sicilia emetteva “polizze” coperte da riserve che erano moneta a tutti gli effetti nel territorio siciliano, cosí fatalmente accadrebbe ora anche in questa visione restrittiva. Il Banco, concordandone l’emissione con la Banca d’Italia, emetterebbe nel mercato monetario europeo titoli, pagabili a vista al portatore, a valere sulle proprie riserve. Che senso ha, a questo punto, impedire che abbiano la forma grafica delle banconote in euro? Nessuno, ma se la Penisola s’impunta su questo aspetto formale, pazienza, anzi forse meglio perché la “moneta siciliana” sarà anche graficamente piú riconoscibile e ciò contribuirà a rinsaldare il senso di appartenenza ad una comunità e la consapevolezza autonomistica dei Siciliani. Teoricamente essa sarà “titolo di credito”, saldabile in euro o in altre valute stabili, ma di fatto può diventare comune mezzo di scambio.

Si potrebbero anche usare le “eccedenze valutarie” per destinarle ai “bisogni della Regione” in modo diverso dalla dazione pura e semplice al Governo regionale. In questo potrebbe essere utile riprendere qualche antico nome delle nostre monete e dedicarlo ai titoli che il “Banco” immetterebbe nel mercato.

Per esempio potrebbe immettere nel mercato titoli integralmente coperti da riserve di metalli pregiati per offrire ai Siciliani una “moneta” che funga essenzialmente da bene rifugio, da riserva di valore. Si potrebbe usare il termine di “Onza” per i titoli coperti da riserve auree, e di “Tarí” per quelli coperti da riserve argentee, tanto per fare un esempio. Per i tagli piú piccoli si possono emettere buoni (ad esempio chiamati “grani”) saldabili in euro al di sotto di una certa soglia, convertibili in titoli “aurei e argentei” se accumulati sopra una certa soglia. Per i tagli minimi si potrebbero anche emettere “gettoni monetari” (chiamandoli ad esempio “piccioli”), sostanzialmente equivalenti agli “spiccioli in euro”, con la differenza che al netto di piccoli signoraggi, questi, se accumulati, sarebbero sempre convertibili nei titoli garantiti da riserve.

La presenza di questi “buoni”, “titoli” o altro è sostitutiva rispetto alla piena applicazione dell’autonomia monetaria. Essa darebbe ai Siciliani una moneta il cui potere d’acquisto sarebbe garantito a differenza di quanto non accada oggi con l’euro e con le statistiche “ufficiali” sull’inflazione. Nessuno potrebbe impedire, nel privato, fermo restando che l’euro è moneta legale, di utilizzare la nostra moneta, a valore stabile, come moneta di puro conto. Una volta che questa fosse entrata nei contratti di lavoro il potere d’acquisto di salari e pensioni non sarebbe piú falcidiato da politiche oppressive.

In alternativa, ma soltanto in condizioni di inoccupazione di fattori della produzione (come accade oggi in Sicilia), si possono emettere “monete complementari” (cioè titoli che hanno un interesse negativo) per stimolare la circolazione del denaro: già in Europa se ne hanno molti esempi in vigore e nulla vieterebbe di sperimentarli, in autonomia privata ma sotto vigilanza pubblica, anche in Sicilia, anche se condizione preliminare è che si liberino dalle mitologie salvifiche che le circondano in alcuni ambienti. Ovvero ancora, al posto di vere e proprie monete, le eccedenze valutarie potrebbero essere convertite in “buoni spesa” a favore delle fasce sociali che vivono in maggior disagio, per evitare che vengano tesaurizzate ed escano dal circuito produttivo.

Come si vede, una volta scoperchiato il “vaso di Pandora”, le alternative sono molteplici. Anche se crediamo che non si debba perdere di vista l’obiettivo principale dell’Autonomia monetaria, è importante essere pronti anche a soluzioni intermedie, peraltro non sempre incompatibili con le precedenti.

 

7. Conclusioni

 

A conclusione di questo studio possiamo chiederci se l’istituto previsto dallo Statuto mantenga ancora la validità che diede ragione per la sua introduzione.

I benefici che se ne possono trarre tutt’oggi a nostro avviso sono fondamentalmente due: uno strettamente economico, l’altro politico.

Da un punto di vista economico, infatti, ciò consiste in pratica nella riappropriazione, da parte della Sicilia, di tutti i benefici di essere un paese che utilizza moneta da sé emessa e non importata (a debito) dall’esterno. Certo, portando il ragionamento al limite qualcuno potrebbe azzardare che tale beneficio sarebbe allora da estendere ad ogni regione, ente locale, comune,… Ma tale accezione sarebbe fuorviante. Se la Sicilia partecipasse realmente dei benefici di un sistema economico unitario con l’Italia, se la Sicilia fosse veramente Italia, se l’integrazione economica e la continuità fossero una realtà e lo strutturale conflitto d’interessi tra Sicilia e Penisola un ricordo, la moneta propria non sarebbe dannosa ma neanche necessaria (come non lo è per la Basilicata o per la Lombardia). Comporterebbe solo qualche marginale costo di “messa in opera” del sistema e quindi potrebbe essere accantonata. Ma la Sicilia non è, né potrà mai essere, se non in una vuota retorica risorgimentale, assimilabile al resto d’Italia. Essa resterà sempre un sistema economico a sé, sufficientemente netto nei suoi confini, ampio e distinguibile da quello complessivo dello Stato italiano, sufficientemente lontano dai centri decisionali della nazione italiana, da non poter convivere nello stesso stato se non a condizione di vera Nazione liberamente ed equamente confederata ovvero di vile colonia. Oggi prevale la seconda realtà. Noi vogliamo almeno la prima. Oggi la Sicilia esporta, esclusivamente in Italia, i propri risparmi, mal retribuiti, e chiede a prestito moneta, valute estere e capitali, esclusivamente dall’Italia, alle sue condizioni. Con la nostra moneta tutto ciò sarebbe un ricordo; in breve cesseremmo di essere una colonia della Penisola.

Da un punto di vista politico avrebbe il sapore di una svolta irreversibile. Solo uno stato nazionale può “battere moneta” e questo, forse anche psicologicamente, porrebbe fine ai continui abusi dei poteri centrali e legherebbe per sempre i cittadini siciliani ad un’altra fondamentale “loro” istituzione. Questo ci difenderebbe anche da processi eurocentrici di concentrazione delle politiche economiche che non hanno piú nulla di democratico ma che (vedasi il Trattato di Lisbona) ci consegnano sempre piú, legati mani e piedi, all’oligarchia finanziaria della BCE senza che nessuno osi muovere un dito. Con una moneta propria il giorno in cui i signori di Francoforte (telecomandati da Londra o da New York) dovessero esagerare potremmo sempre lanciare un referendum tra i Siciliani per abrogare o modificare il 1° comma dell’art. 40 e navigare in mare aperto con una valuta propria da paese sovrano. Ma una scelta di questo tipo andrebbe lungamente preparata da un processo di risanamento dell’economia e di sperimentazione dell’istituto. Una sovranità monetaria piena, dall’oggi al domani, non sarebbe capita dalla maggior parte dei Siciliani che, non avendola “assaggiata”, neanche la difenderebbero e probabilmente non riuscirebbe tecnicamente a funzionare bene per mancanza di buoni fondamentali dell’economia o anche di semplici conoscenze professionali adeguate.

In termini operativi può dunque rivendicarsi immediatamente l’applicazione dell’articolo 40?

Diremmo solo in presenza di alcuni prerequisiti sui quali si può iniziare a lavorare da subito, almeno con un governo finalmente amico dei Siciliani e non “asservito allo straniero”.

Quali questi prerequisiti?

In primis l’Alta Corte. Il ripristino della legalità costituzionale nei rapporti tra Sicilia e Italia dev’essere la “madre di tutte le battaglie”. Con l’attuale faziosa consulta, visti i precedenti, un’interpretazione abrogativa non ce la toglierebbe nessuno. Ma anche un sostanziale avvio di ripresa economica (basta un governo “siciliano” per iniziare almeno a invertire la spirale del sottosviluppo), il consolidamento, istituzionale e culturale, dell’istituzione autonomista (ancora mezzo statuto non è applicato, il “migliore” mezzo, e ancora affidiamo a partiti italiani, cioè nemici dell’autonomia, la maggior parte della nostra rappresentanza politica), la realizzazione del “nostro” federalismo fiscale degli artt.36 et ss., la “guerra” per farsi devolvere benefici tributari e proventi delle risorse energetiche di ogni tipo, di cui la Sicilia è cassaforte per l’Italia, ma di cui non ha se non le briciole.

Su queste basi l’art. 40 sarebbe la marcia in piú e il coronamento del riscatto della nostra Terra.

Ma se non subito l’applicazione integrale, quasi subito (sempre con l’Alta Corte a garantirci) si può rivendicarne un’applicazione almeno parziale secondo quanto detto al penultimo punto.

Ma – anche per questo – si deve partire con un’opera di documentazione, dibattito e sensibilizzazione in materia. Se non saranno informati, i Siciliani non sapranno neanche quali sono i loro diritti. E lo scopo di questo saggio è anche questo.

Forza, Siciliani, osiamo!

Per millenni abbiamo coniato la nostra moneta e siamo stati uno dei Popoli piú ricchi al mondo. Soltanto nei secoli piú bui della dominazione romana e negli ultimi 70 anni non l’abbiamo fatto e siamo stati tra i reietti della Terra.

Arripigghiàmunni la nostra munita! Accumincia la nostra libirtati!

Antudo

 

 

 

                                                                                                                      Massimo Costa

 

 

Uno studio sull’Art. 40 in materia di autonomia valutaria di Massimo Costa docente dell’Università di Palermoultima modifica: 2012-01-17T22:09:37+01:00da torreecorona
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Un pensiero su “Uno studio sull’Art. 40 in materia di autonomia valutaria di Massimo Costa docente dell’Università di Palermo

  1. Credo che sia necessario un incontro con la cittadinanza. Quest’articolo è un importante gonfalone dell’indipendenza praticabile senza offendere l’unità d’Italia con progetti o strategie di seccessione. Una conferenza, dunque, alla quale fare partecipare un numero ristretto di nomi importanti, tali da comprendere le dimensioni del salto di qualità che la nostra Isola può far fare a tutta la nazione intera. E naturalmente, Nazione sarebbe, molto più che Stato. Isola di genio e di taumaturgica itelligenza la cultura responsabile è il valore assoluto al quale, insieme al grande Dostoewskij, sosteniamo i giudizi di valore inerenti alla bellezza che salverà il mondo. Ergo, vera bellezza e non sofismi acquistati e eterodetti.
    Abbiamo le carte in regola. La deontologia culturale è la cosmogonia alla quale tutto il popolo siciliano, interamente, dovrebbe aderire.
    Grazie, Marcello Scurria

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