150° della conquista del Sud -“Pontelandolfo: la strage dimenticata” di Peppino Bagnasco

   All’alba del 14 agosto 1861, ad un anno esatto dall’eccidio di Bronte e a cinque mesi dalla proclamazione del Regno d’Italia, una  morte crudelissima si abbattè sugli abitanti di Pontelandolfo e Casalduni, della Prefettura di Benevento. Oggi a 150 anni di distanza ci è doveroso ricordare quello che potremmo indicare per definizione come il giorno della vergogna, il giorno che nessun italiano di tale nome del 1860, avrebbe mai pensato avvenisse: il massacro per rappresaglia di civili inermi compresi vecchi, donne e bambini ad opera di due battaglioni di bersaglieri “italiani”. A differenza della strage di Bronte di stampo politico, quella dei due paesi matesi (in tutto circa 7500 abitanti) fu di matrice terroristica, per dare un esempio ai movimenti antiunitari di come il governo italiano non avrebbe tollerato azioni contro le proprie truppe. Ma riassumiamo brevemente con ordine gli avvenimenti di quell’anno. Il 17 marzo 1861 è il giorno dell’assunzione del titolo di Re d’Italia da parte del Re di Sardegna. (A proposito, visto che i duchi di Casa Savoia da tempo avevano abbandonato l’Alta Savoia e scelto Torino come loro residenza, con la vocazione di cercare nell’Alta Italia l’espansione territoriale, si è mai chiesto qualcuno perché le Potenze europee sia nel 1713 che nel 1720 li elevarono a rango di Re di Sicilia, e poi di Sardegna, ma mai Re di Piemonte com’era logico che fosse?). Il 7 aprile 1861 nel castello federiciano di Lagopesole (in terra di Basilicata, chiamata poi dal regime fascista con il romano nome di Lucania), avvenne il raduno di tutte le bande dei ribelli per acclamare a proprio generalissimo, Carmine Crocco Donatelli, come ci dice Indro Montanelli nella sua “Storia d’Italia e per innalzare nuovamente il vessillo borbonico con l’adozione delle coccarde rosse da contrapporre a quelle azzurre dei Savoia. Le bande, è bene ricordarlo, non erano le endemiche bande stanziali dei fuorilegge, ma erano composte oltre che da queste,  da combattenti ribelli, in maggior parte militari dei cinquantamila sbandati del disciolto esercito duosiciliano, da disertori (cittadini che volevano sfuggire alla leva obbligatoria di sette anni, si diceva in Sicilia “megghiu porcu ca surdatu“), da alcuni evasi dalle carceri, da contadini esausti dalle angherie e dalle tasse, da nostalgici borbonici, nonchè da garibaldini traditi nelle loro attese, tutti protetti dall’omertà dei residenti (per convinzione o per paura) e fiancheggiati dall’intera classe del clero. Non dimentichiamo che l’obiettivo dei massoni, quinta colonna della spedizione dei “Mille”, era la liquidazione dello Stato della Chiesa e l’affermazione di uno Stato laico di stampo inglese. A costoro si aggiungevano, come riferisce lo storico Del Boca, circa 80.000 gregari formando il tutto, dal Tronto alle Calabrie, circa 400 bande. Combatterono in primis contro i “galantuomini”, i nuovi ricchi, che si erano impossessati del demanio pubblico, e contro quelli che consideravano truppe d’occupazione. Seguirono guerriglie, agguati, uccisioni, ritorsioni, stragi, rappresaglie che in cinque anni, dal ’61 al ’65 vide i cosiddetti “briganti” contrastare l’Esercito regolare, forte di 120.000 uomini appoggiato da 80.000 effettivi della Guardia Nazionale. I motivi del diffuso malcontento era noto: l’aggravio delle tasse, l’abolizione degli usi civici del demanio, la coscrizione obbligatoria, l’estensione a tutte le province delle leggi piemontesi senza tener il alcun conto per una politica miope, della diversità delle culture dei paesi annessi. Fu una vera e propria guerra civile, con molte analogie con quella combattuta negli stessi anni, in America tra Nordisti e Sudisti. Anche lì le truppe d’occupazione si ritirarono solo nel 1876 in cambio dell’appoggio per le presidenziali al candidato repubblicano. Il 2 agosto 1861 Massimo D’Azeglio ( genero di Alessandro Manzoni e già Governatore di Milano), scrivendo al senatore Matteucci, così affermava:”.. a Napoli abbiamo cacciato il sovrano per stabilire un governo sul consenso universale ( ma era universale il 2% della popolazione ?) ma so che di qua dal Tronto (fiume delle Marche che delimitava il confine del Regno delle Due Sicilie) non ci vogliono sessanta battaglioni e di là, sì…..si deve trovare il modo di sapere dai Napoletani, una buona volta, se ci vogliono o no ..”, Ma torniamo a quel funesto mese di agosto del ’61. La notte tra il 4 e il 5 le alture circondanti Pontelandolfo erano piene di fuochi accesi. E’ un avvertimento preciso dei ribelli ai collaborazionisti dei piemontesi che puntualmente si danno alla fuga. Il 6 è l’annuale fiera di San Donato. Accorrono in tanti dai paesi limitrofi. Nello spiazzo della chiesa sono in circa 5000. Vi si unisce anche la banda di Cosimo Giordano, già sergente dei carabinieri a cavallo dell’esercito borbonico. Il paese viene occupato al grido di Viva Re Francesco II. Con i governanti latitanti, nel paese viene proclamato un  governo provvisorio. La rivolta si propaga. Insorgono Molinara, S. Giorgio, Pago, Pietralcina. A Casalduni viene assaltata la sede della Guardia nazionale, la folla si impadronisce delle armi, vengono innalzati i vessilli borbonici e stracciati quelli savoiardi. Inizia la repressione. Il 9 a Cancello vengono uccisi dai soldati 29 civili inermi,  Il Governatore di Campobasso dà avviso a Napoli al generale Cialdini che tutto il Sannio e il Matese è in mano ai briganti. Al generale Maurizio De Sonnaz (soprannominato “Requiescant” per la facilità con cui ordinava la fucilazione dei religiosi e l’assalto a chiese ed abbazie) viene dato il comando delle operazioni di polizia. Alla fine ci si accorgerà che nel Meridione si sarà trattato di vera e propria “pulizia etnica”. Il 10 agosto un drappello di 45 soldati del 36°Rgt Fanteria di bersaglieri, al comando del tenente Bracci, inviato inopinatamente a Pontelandolfo per sciogliere quel “governo provvisorio”, viene accolto a fucilate. Muore un soldato. Il gruppo ripiega verso Casalduni, paese a 5 Km di distanza. Viene respinto dalla banda Pica, altro sergente dell’esercito duosiciliano. Il Bracci, accusato dai suoi di codardia, viene ucciso. Il giorno 11 circondati da centinaia di ribelli,il drappello si arrende. In quei due giorni i militari avevano fatto man bassa nelle case dei contadini di tutto quanto occorreva loro per sussistenza, non escluso il furto, la rapina, i soprusi. Il 12 viene istruito un sommario processo. A sera vengono fucilati. Il Cialdini informato della morte del suo Reparto, ordina la rappresaglia: “ che di Pontelandolfo e Casalduni non rimanesse pietra su pietra”. Due colonne di soldati, una di 500 bersaglieri al comando del tenente-colonnello Negri e un’altra di 400 al comando del maggiore Melegari si dirigono verso Pontelandolfo e Casalduni. All’alba del 14 la banda Giordano avvista la colonna del Negri. Ne nasce uno scontro a fuoco. Cadono 25 soldati. La banda si ritira, ma il colonnello anziché inseguirli e fare giustizia, preferisce entrare nella storia come criminale di guerra. Dà ordine ai suoi di circondare il paese, chiuderne tutte le vie d’accesso e di incendiare le porte delle case. Inizia il massacro. I malcapitati colti nel sonno tentano la fuga, spesso seminudi. Vengono falciati dai soldati appostati. Si registrano scene di inaudita violenza. Gli anziani e i bambini vengono uccisi subito, le donne specie se piacenti dopo aver subito le violenze e lo stupro. Sintomatico il caso Biondi. Concettina Biondi, una bella  sedicenne, davanti al padre legato ad un palo, viene denudata e violentata bestialmente a turno in una stalla per un’ora da dieci bersaglieri. Sarà poi uccisa insieme al padre. Tutto il paese brucia. Le abitazioni sono saccheggiate: oro, argento, soldi, catene, bracciali, orecchini, orologi, finanche pentole e piatti. Il saccheggio e le stragi durano l’intera giornata del 14 agosto. Non furono risparmiati nemmeno due giovani liberali universitari unitaristi ( i fratelli Rinaldi) che protestarono col Negri per quell’incredibile realtà a cui stavano assistendo. Per le loro reiterate proteste il “macellaio” ne ordinò la fucilazione. Morirono sulla spianata della chiesa di San Donato senza i conforti religiosi, pur richiesti. Dal saccheggio non furono risparmiate le chiese. Le statue dei Santi spogliate dei doni dei fedeli. Le pissidi, i calici, i quadri, i vasi, tutto fu rubato. Molti di quegli oggetti comparvero il giorno dopo a Fragneto Monforte dove fu allestito un mercatino per la loro vendita. Casalduni subì la stessa sorte. Ma lì gli abitanti avvertiti per tempo fuggirono sulle colline circostanti. Primi fra tutti, quelli  che avevano partecipato o eseguito la fucilazione dei soldati. Quelli rimasti, essendo innocenti e credendosi al riparo della giustizia, pensarono di non avere nulla da temere anche perché indicati tali al Melegari dai collaborazionisti. Ma l’azione ordinata dal De Sonnaz, che di nobile aveva solo il casato, doveva avere il suo conseguente connotato intriso di terrore. E così morirono in tanti, passati con la baionetta o bruciati dentro le loro case. A notte il colonnello Negri così telegrafava:”.. ieri mattina all’alba giustizia fu fatta contro Pontelandolfo e Casalduni. Essi bruciano ancora..”. A sua volta il De Sonnaz in un dispaccio inviato al Cialdini a Napoli e all’Aiutante di campo del Re a Torino, così annunciava compiaciuto:”.. Giustizia è fatta. L’azione di Negri è stata perfetta”.. In quanti morirono nella feroce rappresaglia non è stato mai possibile accertarlo con precisione. Mancano i documenti ufficiali, per l’incenerimento degli archivi, per la sparizione dei rapporti dei comandanti dei battaglioni. Tutto doveva essere messo a tacere, vista l’eco che gli avvenimenti ebbero sulla inorridita stampa estera. Un silenzio simile a quello imposto il precedente 11 marzo con la sparizione del diario di bordo della nave “Generoso” inviata per ricercare in mare relitti del naufragio del vapore “Ercole” affondato con le venti casse di documenti della “epopea dei Mille”del colonnello-poeta Ippolito Nievo. Oggi in una lapide di Pontelandolfo si possono leggere  i nomi di tredici vittime (presumibilmente quelle attinte dal “fuoco amico”). Altri come il filogovernativo “Il popolo d’Italia”, accenna a 164 morti. Secondo altri fonti sarebbero stati tra i 900 e i 2000. E’ un fatto che centinaia di sopravvissuti rastrellati nelle campagne, furono condotti sotto scorta a Benevento e Campobasso e della loro sorte non si è saputo più nulla. Dopo un raffronto fatto sui registri parrocchiali il parroco Don Giovanni Casilli così scriveva nel suo “ In cammino per Emmaus”: “..un calo secco dal 1857 al 1861 registra la popolazione di Pontelandolfo, passando da 5561 a 4375 unità”. Mancano quindi al censimento del 1861, il primo dell’Unità, ben 1186 anime! I morti registrati dal 14 agosto al 31 dicembre di quell’anno furono 291. Ma in tanti, irriconoscibili perché bruciati, non vennero registrati. Furono sepolti in una fossa comune dietro la chiesa di San Donato. Certo,  gli storici agiografici affermano che queste sono cifre inventate per screditare la nuova Italia peraltro ancora incompleta mancando alla sua unificazione il Veneto, il Trentino, le Venezie Giulie e il Lazio. Territori sotto il dominio dell’Impero asburgico o sotto tutela del Secondo Impero francese e pertanto difficilmente acquisibili con giochi di palazzo. Ma soccorre allo stabilimento della verità storica, i diari dei militari che parteciparono alla criminale azione di “guerra”. E così dal bersagliere Carlo Margolfo del 6° btg del 36° Rgt Fanteria (quello del Negri), apprendiamo:”.. entrammo nel paese. Subito abbiamo cominciato a fucilare i preti e uomini quanti capitava… e quale desolazione, non si poteva stare d’intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti e chi sotto le macerie delle case… il maggiore Rossi ordinò ai suoi sottoposti l’incendio e lo sterminio dell’intero paese. Allora fu fiera rappresaglia di sangue che si posò con tutti i suoi orrori su quella colpevole popolazione…”. Di Casalduni, un ufficiale anch’esso del 36°Rgt, tale Angiolo De Witt, piemontese, annota: “..i manipoli di bersaglieri fecero snidare dalle case gli impauriti reazionari dell’ieri e quando, dai mucchi di quei cafoni erano costretti dalle baionette a scendere per le vie, ivi giunti, vi trovavano squadre di soldati che facevano una scarica a bruciapelo contro di loro.. questa scena di terrore guerriero durò un’intera giornata..”. E’ ancora il tristo  colonnello Negri che in una lettera al padre inviata tempo dopo, scrive:”..gli abitanti di questo villaggio (Pontelandolfo) commisero il più nero tradimento e degli atti di mostruosa barbarie, ma la punizione che gli venne inflitta, quantunque meritata, non fu per questo meno barbara. Un battaglione di bersaglieri entrò in paese, uccisero quanti vi erano rimasti, saccheggiò tutte le case e poi mise il fuoco al villaggio intero, che venne interamente distrutto. La stessa sorte stoccò a Casalduni…”. A confermare queste inequivocabili e terribili realtà ecco le parole del tenente Mancini di ritorno da Pontelandolfo dove era stato inviato dal maggiore Melegari: ”.. possiamo tornarcene a San Lupo (dove si era concentrata la brigata) il colonnello Negri ha distrutto completamente Pontelandolfo: ho visto mucchi di cadaveri, forse cinquecento, forse ottocento, forse mille, una vera carneficina”. Il giornale fiorentino “Il Contemporaneo” pubblicò alcune statistiche sui primi nove mesi di “libertà” piemontese nell’ex Regno delle Due Sicilie: ”.. morti fucilati immantinente 1841, fucilati dopo qualche ora 7127, feriti 10.604, prigionieri e arrestati circa 20.000. Case saccheggiate 2103, incendiate 918, paesi distrutti 14, incendiati 5, chiese saccheggiate 12, sacerdoti fucilati 54, frati fucilati 22, comuni insorti 1428, persone rimaste senzatetto oltre 40.000”. I caduti nell’Esercito italiano furono tanti quanti non si ebbero nelle tre guerre d’indipendenza. Il colonnello Pier Eleonoro Negri, già medaglia d’oro al valore per il comportamento dimostrato al Volturno, due mesi dopo la strage di Pontelandolfo, fu creato Cavaliere dell’Ordine di San Maurizio e Lazzaro. Furono pure insigniti Grand’Ufficiali dell’Ordine Militare oltre a Maurizio conte De Sonnaz ed Enrico Cialdini, Nino Bixio, Giacomo Medici, Giuseppe Pianelli, Giuseppe Covone, Emilio Pallavicini di Priola, tutti implicati nel tempo nella “normalizzazione” dell’ex Regno e in particolare della Sicilia che da costoro chi con correità, chi direttamente, patì in tre stati d’assedio enormi sofferenze. Recentemente il sindaco di Pontelandolfo, Cosimo Testa, ha chiesto, inascoltato, il riconoscimento di status di “Città Martire”. A noi è sufficiente l’averlo ricordato a memoria dei tanti massacrati. Nel tempo Giovanni Verga in “Libertà” e Luigi Pirandello in “I vecchi e i giovani”e a cui non si è sottratto Antonio Gramsci, hanno emesso giudizi storici molto severi sul processo dell’unificazione dell’Italia. Il 23 marzo 1944 i tedeschi occupanti Roma, per l’attentato di Via Rasella operato dai partigiani, a rappresaglia dei 30 caduti del battaglione “Bozen”, trucidarono alle “Fosse ardeatine”  335 civili. E’ una data che viene ricordata annualmente e giustamente. Perché non viene reso uguale onore anche ai trucidati di Pontelandolfo e Casalduni sui quali, a maggior disonore, non ci fu avviso di rappresaglia? Ormai anche i più restii tra gli storici hanno riconosciuto il massacro e manifestato dubbi su come si giunse all’acquisizione del Regno delle Due Sicilie. Perfino la storica inglese (è quanto dire) Lucy Riall, docente di Storia al Birkbeck College di Londra, parla della spedizione di Garibaldi come di una vicenda mediatica. Infatti al seguito dei Mille c’erano giornalisti (come Jessie White Mario), scrittori (quale Alessandro Dumas) e artisti vari (in genere pittori che fecero delle litografie fantastiche sulle vicende del ’60). E parla anche delle ombre sulla raccolta dei fondi operata da Agostino Bertani e sugli uomini che fecero l’Unità d’Italia. A leggere Pirandello, nel Meridione tre furono i fallimenti dell’unificazione: come rinnovamento dell’Italia, come strumento di liberazione delle zone sottosviluppate, come nascita del Socialismo inteso quale ripresa del movimento risorgimentale. Nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia è un dovere  per una cosciente accettazione  condivisa, il riconoscere un eccidio che travalicando il fine della rappresaglia fu eseguito a solo scopo terroristico e risultato tra i più efferati crimini della storia. Anche il generale Sherman nel 1864 l’aveva fatto ordinando l’incendio insensato della città di Atlanta degli Stati Confederati del Sud e compiuto dopo averla evacuata. Decenni prima lo stesso aveva fatto il generale russo Kutuzoff con Mosca, sacrificata nell’intento strategico di fare terra bruciata alle truppe napoleoniche. I risultati della guerra civile italiana combattuta dal 1861 e protrattasi fino al 1870, li espone lo storico del Meridione borbonico Ciro Pelliccio quando scrive che le fonti più accreditate danno per i ribelli 123.860 fucilati, 130.364 feriti, 43.629 deportati, 41 paesi completamente distrutti, 10.760 briganti condannati all’ergastolo e 382.637 a pene varie. Un vero e proprio massacro. Nell’Esercito italiano le perdite ammontarono a  21.120 soldati caduti in combattimento, 1.073 morti per “febbri” (tifo e malaria) o per ferite, 820 dispersi. Sui testi ufficiali dei libri di scuola di ogni ordine e grado tutto ciò è taciuto. Di Pontelandolfo e Casalduni dove uomini, donne, bambini, vecchi, religiosi, trovarono una morte spesso orrenda a tutt’oggi si registra un silenzio  colpevole e consapevole. Ma la storia esige il suo tributo di verità e prima o poi l’avrà. Prima o poi annoterà il giorno 14 agosto 1861, come il giorno dell’infamia. Il giorno della strage dimenticata.

 

150° della conquista del Sud -“Pontelandolfo: la strage dimenticata” di Peppino Bagnascoultima modifica: 2011-08-24T13:00:00+02:00da torreecorona
Reposta per primo quest’articolo