Un evocazione di Tommaso Romano. A proposito delle elezioni regionali siciliane

 IMG_1974.JPGUna evocazione, più che una parola e un concetto, che suona come salvifica, fra i patinati (e costosi) cartelloni elettorali, sugli spot radiotelevisivi, nei programmi massimalisti e copia e incolla di non pochi candidati governatori di Sicilia e di aspiranti agli scranni (comodi e ben pagati dai contribuenti) di Sala D’Ercole, questa parola è Rivoluzione. La declinano quasi tutti come panacea a tutti i mali, antidoto al non voto come atto regionato ad una classe di pseudo dirigenti il più dei quali, già nominati più che eletti in altri scranni  o già detentori di incarichi (sindaco, assessore, deputato). Sembra a codesti personaggi che il gridare più forte alla “liberante” rivoluzione sia una sorta di talismano, per “tutto distruggere per tutto ricostruire”. Il falso e pernicioso mito della rivoluzione laverebbe così – come nella Francia giacobina del terrore degli “immortali principi” e in quella cino-sovietica, mali e incrostazioni, tutte aperte al “nuovo” ipotetico ed utopico, nonché ad una presunta stagione di nuove felicità. Sorprende che fra gli alleati di coalizioni politiche ed elettorali multiformi e a volte pittoresche, facciano parte anche dei presunti intransigenti in nome di “valori” non ben definiti. In realtà, specie per taluni candidati di partiti e gruppi più rappresentativi, il ricorso e il riferimento alla Rivoluzione è oggettivamente giusto, in quanto questi sono i portatori più o meno consapevoli di un radicale mutamento rispetto a quello che taluni si ostinano a definire l’Ordine Civile. Sia ben chiaro che chi scrive nulla – da sempre – ha da spartire né con i libertari né con i sostenitori dello stato etico che dirige e decide ciò che è bene o male per i cittadini in base ai propri parametri. Ciò non è sicuramente il fondamento dell’etica, che non si impone certo con le leggi astratte e le regole del totalitarismo. Si dirà, allora, perché il rifiuto della rivoluzione come teorica e pratica rispetto al mondo in rovina e in piena crisi?  Si è forse conservatori impotenti dell’esistente, nostalgici di un indimostrabile “bel tempo andato”? E poi, le cosiddette “rivoluzioni nazionali” del XX secolo non sono forse state argine alla sovversione internazionalista e, ancora, non è forse giusto ribellarsi al potere mondialista del denaro e delle banche, attraverso un atto rivoluzionario. E, si eccepisce, perché rifiutare oggi il concetto stesso di “Rivoluzione tradizionale” (inteso come ritorno di un astro al punto di partenza) quarant’anni fa anche da noi sostenuto? Domande tutte legittime, sicuramente. Ma di “salvatori del mondo”, noi ne conosciamo uno solo che è qui tra noi da duemila anni: Gesù Cristo. Il resto si inserisce con punte di populismo becero e di ridicolo puro in una più ampia strategia di distruzione  che non può che vederci contro, appunto perché il nostro,  ha un solido fondamento, una roccia che non è apologia dell’intimismo, di rifiuto della tecnologia, né antropologia che tutto centra solo e unicamente sui diritti (senza legami, né storia, né doveri) individualistici. I quali portano inevitabilmente a quel relativismo morale senza principi che si trasforma in una sorte di totalitarismo delle più disparate pratiche individuali e/o sociali e nelle opinioni cieche erette a sistema. Il quale sistema imperante esclude dal suo orizzonte ogni trascendenza, ogni verità, qualunque autorevolezza, perfino le stesse regole che si invocano parlando  della nuova Bibbia-Costituzione che, per propri comodi e interessi partigiani può modificarsi  adattandosi “ai segni dei tempi”, ma che deve restare immutata là dove conviene.

È la lunga scia dello spirito del giacobinismo, che impera lo spirito dei tagliatori“giusti” di teste e di sovrani e popolo, di dissidenti  e non abditacari di un patrimonio tradizionale che si cerca di spezzare con un’ascia incandescente sovvertitrice, a cominciare dal significato, del linguaggio di cui discende  l’anarchia intellettuale (Gonzague de Reynold).

Qui non è certo in gioco la difesa acritica delle morali borghesi, i privilegi da azzerare, il familismo e le sette e lobby del potere (vero) mercantile. Noi, più semplicemente, diciamo che re-instaurare il bene, passa per la lotta a ciò che riteniamo la malattia sociale e personale del nostro tempo: lo spirito rivoluzionario appunto. Perché Rivoluzionare è oggi sinonimo di distruzione, di sovvertimento globale, di annientamento degli istituti e valori tradizionali, a cominciare dalla famiglia e dai corpi intermedi. La pretesa di essere nel giusto è quella sì una forma di pericolosa anticipazione di una dittatura dell’indistinto ove ognuno può fare ciò che più gli aggrada senza diritto e senza altra soddisfazione che la propria ingordigia, il proprio tornaconto e benessere materiale, confinando Dio fra le anticaglie, le frattaglie del passato residuo con il suo Unigenito esibito come testimonial (fra i tanti e pure a Lui opposti) di un pacifismo  ad oltranza e di un proclamato ed esibito  “amore” sincretistico francamente falso e inconcludente.

È vero, allora, che la rivoluzione – per parafrasare – è già cominciata e si è scatenata, ma ciò ci rende ancora più consapevoli che per instaurare bisogna restaurare intano la regalità di Cristo, anche sociale, (tradita anche da non pochi chierici), e gli Istituti del buon vivere comunitariamente.

Ce lo ricorda lo stesso Gesù (Mt 5,17) “non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i poteri, non sono venuto per distruggere ma per dare compimento” Il nostro deciso essere contro la rivoluzione in nome della tradizione non ha il “sapore antico” di un mondo ormai sepolto, ma ha l’orgoglio di rappresentare la minoranza attiva che nel reale si  misura  e lotta contro tutta la disintegrazione, la logica antiumana, antisociale e contro Dio che un ordine e una civiltà, non solo nei cieli, ci hanno dettato come possibili e che l’uomo (simultaneamente angelo e bestia, come sosteneva Pascal), in ogni tempo e latitudine, per chi ha voluto accogliere o respingere con  predominanza sociale le tendenze ora proiettate verso l’alto ora verso il sottosuolo e l’attrazione del baratro (Baudelaire). Riconquistare il contrario della rivoluzione è avere coscienza e certezza del vero, del giusto, del buono, del bello, nell’armonia e per la giustizia sociale, attraverso la pienezza della cristiana verità. Questo è il nostro compito nella polis che, come consuetudine, rifuggirà nel temporale e nelle scelte socio-politiche da ogni collateralismo col progressismo clericale e da ogni trasbordo opportunistico.

Ogni parlare di radici e di storia e affermare i primati di realtà, spiritualità, gerarchia, merito, fede e religiosità, diritto naturale, competenza, antiutilitarismo, e sostenere le virtù di prudenza e temperanza, senso del limite, è rimettere parallelamente in discussione tutto ciò che la modernità e la rivoluzione (etica, politica ed economico-sociale) hanno rappresentato e prodotto. Beninteso, una rivoluzione non è solo da intendersi come atto insurrezionale e circoscritto, ma come ciò che erode nel tempo e con lucida caparbia il tessuto delle libertà tradizionali autentiche, anzitutto creatività e manualità, le costumanze e i legami identitari di un popolo, che rifiuta ogni passato e qualunque idea di perennità , in nome del nuovo, anche e banalmente anagraficamente inteso.

Il nostro modo di essere tradizionalpopolari ci fa considerare dunque doverosa,  la presenza e l’opposizione a ciò che scardina, del disegno creatore di Dio, facendoci paladini consapevoli della vita contro la morte e l’autodistruzione, del bello che ha una sua oggettività rispetto al brutto che ci circonda nel frastuono delle megalopoli senz’anima e durata, nel deserto interiore di intere generazioni che potrebbero aspirare ad una luce di speranza, che è nostro compito indicare comunque.

 

                                                                                              Tommaso Romano

Un evocazione di Tommaso Romano. A proposito delle elezioni regionali sicilianeultima modifica: 2012-10-02T22:17:35+02:00da torreecorona
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2 pensieri su “Un evocazione di Tommaso Romano. A proposito delle elezioni regionali siciliane

  1. (leggere) Tommaso Romano fa un certo effetto; certamente in chi sa leggere bene ed è ineluttabile in chi lo conosce personalmente come me. Perché sempre, sia scritto o orale, Tommaso Romano carica di ascendente il civismo di ogni lettore o ascoltatore dolorante nel frattempo per “il dito sulla piaga” che fa, nel bene e nel male, pragmaticamente, ricordare che la vita è un gioco e che la morte, invece, è il baro. Un’esistenza consumata dal tempo che scorre addosso, è un’esistenza rubata.
    Oggi, essere e fare i professori, cioè capire, non è facile. Figuriamoci quanto può essere difficoltoso essere lungimiranti e contemporaneamente pacifici rivoluzionari. Qualcuno ha già detto che “dire la verità quando tutti gli altri mentono, è un atto rivoluzionario!” Vero!, almeno quanto il padre di famiglia (dovrebbe essere) è consapevole che è difficile fare bene il mestiere di genitore. In una parola, responsabilità. In un’altra, educazione. Eppure, (mi) sembrano neologismi. Verità, responsabilità, educazione, pare siano termini di una insolita glossalalia.
    Chiunque abbia parlato da uno scranno, forse ha urlato, forse ha volgarmente manifestato il personale malcontento (il dissenso è più colto), dovrebbe rendersi conto che non ha compiuto nulla di socialmente utile per se stesso e per il prossimo, se la ridondante libertà d’esprimere un’opinione, conclude sulla teoria del mercinomio asseverando il materialismo di regole e/o (e/o perchè anche le regole devono essere virtuose) virtù dissimulate, stravolte. Parole. Parole o armate o disarmate, opulentuosi ma sclerotici virtuosismi orali in svisata libera.
    Questa non è politica. Non è vocazione che ama il popolo al quale chiede il voto.
    E’ innegabile che la mia stima per Tommaso Romano non ripercorre l’idolatria, ma neanche – sarebbe peggio – l’egolatria di una vicenda amichevole. No, non ci starei, non dò il fianco a nessuna piaggieria. Invece, chi legge o ascolta senza riserve surrettizie il professore Tommaso Romano presidente del PTP, sa o comprende che c’è un di più oltre la confidenzialità, un di più che si riferisce agli aspetti segreti dei quali tutti noi, del resto, chiediamo di parlarne. L’esprimersi liberamente sono inostri ideali che si fermano umilmente di fronte al sociniano per eccellenza: Gesù. Ovvero, nessuno migliore di lui. Che pleonasmo! Pare che io stia scoprendo l’acqua calda! Ciononostante, con gli occhi della mente a cui sono abituati gli scienziati, gli scrittori, i filantropi, i poeti, gli artisti, i filosofi, insomma coloro che fanno esperienza quotidiana e non solo professionale con “destrezza creativa” senza bisogno di rappresentarsi l’albero di Baudelaire, sotto i piedi di Gesù, ci siamo tutti. Solo uomini vivi con tanta voglia di vivere e non di sopravvivere.
    Ecco, la rivoluzione a cui Tommaso Romano fa riferimento è un atto dell’intelligenza, un esprimersi del comprendonio personale che non accetta la sterilizzazione delle idee. A dare manforte, è la stessa vita, l’esperienza quotidiana, l’impegno che induce alla vocazione, il politico di spirito che impara dalla strada, viva voce di umanità (e verità). Insomma, è giunta l’ora di finirla con la retropassività. Io ho le tasche piene degli interessi retropassivi della politica. Tommaso Romano pure. Anche il Partito Tradizional Popolare. E’ come se avessimo da imparare la democrazia. Un ricordo. Con facile destrezza possiamo immaginarci la caterva di candidati che soddisfano l’ego con l’iscrizione nelle liste elettorali. Ecco. Ecco. Ecco. Qui sta il punto. Io, suggerisco, preterintenzionalmente e spero con molta vostra soddisfazione, di usare la fantasia per immaginarci burattini, perché il mondo politico che ci circonda, quello a cui non appartiene il Partito Tradizional Popolare, è invece certo, sempre certo, fortissimamente certo di avere a che fare con un intero popolo di imbecilli, forse schiavi. La differenza fra l’essere uomini con il diritto di vivere e non di sorpavvivere tetropassivamente (con la “t”), dovrebbe apparire in tutta la sua nuda sollecitudine e contemporanea insulsaggine.
    Dunque, questo significa fare la rivoluzione, riappropriarsi della personale libertà di essere. Voglio scriverlo, voglio gridarlo, desidero e vorrei che fossimo in molti ad agognare non la lampada di Aladino a cui chiedere l’esaudimento di tre arcani, bensì la consapevole partecipazione alla vita quotidiana essendo essa stessa una condizione che mi/ci appartiene; voglio che dal voto, mi ritorni la civiltà per la quale mi impegno; chiedo che la mia dignità di elettore non sia infangata dai tossici propositi che ispirano i criminali; voglio che la mia terra sia l’isola che desidero e non il territorio di sconfitte implicitamente perse.
    Bisogna essere giovani dentro per essere oltre. Bisogna essere certi che non pensino più dei siciliani elettori come dei burattini esautoriati prima di cominciare. Dobbiamo, noi elettori, avere l’età spirituale e non quella anagrafica. Non dobbiamo invidiare la ricchezza dell’uomo politico, ma la sua saggezza sociale.
    Grazie per l’attenzione Marcello Scurria
    Già… Grazie per l’attenzione.

  2. commento: (leggere) Tommaso Romano fa un certo effetto; certamente in chi sa leggere bene ed è ineluttabile in chi lo conosce personalmente come me. Perché sempre, sia scritto o orale, Tommaso Romano carica di ascendente il civismo di ogni lettore o ascoltatore dolorante nel frattempo per “il dito sulla piaga” che fa, nel bene e nel male, pragmaticamente, ricordare che la vita è un gioco e che la morte, invece, è il baro. Un’esistenza consumata dal tempo che scorre addosso, è un’esistenza rubata.Oggi, essere e fare i professori, cioè capire, non è facile. Figuriamoci quanto può essere difficoltoso essere lungimiranti e contemporaneamente pacifici rivoluzionari. Qualcuno ha già detto che “dire la verità quando tutti gli altri mentono, è un atto rivoluzionario!” Vero!, almeno quanto il padre di famiglia (dovrebbe essere) è consapevole che è difficile fare bene il mestiere di genitore. In una parola, responsabilità. In un’altra, educazione. Eppure, (mi) sembrano neologismi. Verità, responsabilità, educazione, pare siano termini di una insolita glossalalia. Chiunque abbia parlato da uno scranno, forse ha urlato, forse ha volgarmente manifestato il personale malcontento (il dissenso è più colto), dovrebbe rendersi conto che non ha compiuto nulla di socialmente utile per se stesso e per il prossimo, se la ridondante libertà d’esprimere un’opinione, conclude sulla teoria del mercinomio asseverando il materialismo di regole e/o (e/o perchè anche le regole devono essere virtuose) virtù dissimulate, stravolte. Parole. Parole o armate o disarmate, opulentuosi ma sclerotici virtuosismi orali in svisata libera. Questa non è politica. Non è vocazione che ama il popolo al quale chiede il voto. E’ innegabile che la mia stima per Tommaso Romano non ripercorre l’idolatria, ma neanche – sarebbe peggio – l’egolatria di una vicenda amichevole. No, non ci starei, non dò il fianco a nessuna piaggieria. Invece, chi legge o ascolta senza riserve surrettizie il professore Tommaso Romano presidente del PTP, sa o comprende che c’è un di più oltre la confidenzialità, un di più che si riferisce agli aspetti segreti dei quali tutti noi, del resto, chiediamo di parlarne. L’esprimersi liberamente sono inostri ideali che si fermano umilmente di fronte al sociniano per eccellenza: Gesù. Ovvero, nessuno migliore di lui. Che pleonasmo! Pare che io stia scoprendo l’acqua calda! Ciononostante, con gli occhi della mente a cui sono abituati gli scienziati, gli scrittori, i filantropi, i poeti, gli artisti, i filosofi, insomma coloro che fanno esperienza quotidiana e non solo professionale con “destrezza creativa” senza bisogno di rappresentarsi l’albero di Baudelaire, sotto i piedi di Gesù, ci siamo tutti. Solo uomini vivi con tanta voglia di vivere e non di sopravvivere. Ecco, la rivoluzione a cui Tommaso Romano fa riferimento è un atto dell’intelligenza, un esprimersi del comprendonio personale che non accetta la sterilizzazione delle idee. A dare manforte, è la stessa vita, l’esperienza quotidiana, l’impegno che induce alla vocazione, il politico di spirito che impara dalla strada, viva voce di umanità (e verità). Insomma, è giunta l’ora di finirla con la retropassività. Io ho le tasche piene degli interessi retropassivi della politica. Tommaso Romano pure. Anche il Partito Tradizional Popolare. E’ come se avessimo da imparare la democrazia. Un ricordo. Con facile destrezza possiamo immaginarci la caterva di candidati che soddisfano l’ego con l’iscrizione nelle liste elettorali. Ecco. Ecco. Ecco. Qui sta il punto. Io, suggerisco, preterintenzionalmente e spero con molta vostra soddisfazione, di usare la fantasia per immaginarci burattini, perché il mondo politico che ci circonda, quello a cui non appartiene il Partito Tradizional Popolare, è invece certo, sempre certo, fortissimamente certo di avere a che fare con un intero popolo di imbecilli, forse schiavi. La differenza fra l’essere uomini con il diritto di vivere e non di sorpavvivere tetropassivamente (con la “t”), dovrebbe apparire in tutta la sua nuda sollecitudine e contemporanea insulsaggine. Dunque, questo significa fare la rivoluzione, riappropriarsi della personale libertà di essere. Voglio scriverlo, voglio gridarlo, desidero e vorrei che fossimo in molti ad agognare non la lampada di Aladino a cui chiedere l’esaudimento di tre arcani, bensì la consapevole partecipazione alla vita quotidiana essendo essa stessa una condizione che mi/ci appartiene; voglio che dal voto, mi ritorni la civiltà per la quale mi impegno; chiedo che la mia dignità di elettore non sia infangata dai tossici propositi che ispirano i criminali; voglio che la mia terra sia l’isola che desidero e non il territorio di sconfitte implicitamente perse. Bisogna essere giovani dentro per essere oltre. Bisogna essere certi che non pensino più dei siciliani elettori come dei burattini esautoriati prima di cominciare. Dobbiamo, noi elettori, avere l’età spirituale e non quella anagrafica. Non dobbiamo invidiare la ricchezza dell’uomo politico, ma la sua saggezza sociale.Grazie per l’attenzione. Già… Grazie per l’attenzione.
    Marcello Scurria

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