GARIBALDI ANTICATTOLICO di Guido BELMONTE

Il tempo ristretto di cui dispongo per il mio intervento e l’essersi già, in precedenti interventi, parlato dell’anticattolicesimo di Garibaldi m’inducono a trattare l’argomento con dei cenni sintetici, riguardanti tre punti essenziali: 1) il carattere marcatamente anticattolico del Risorgimento; 2) l’anticattolicesimo, in particolare, di Garibaldi; 3) il violento impatto dell’arrivo di Garibaldi sulla Chiesa napoletana.

Il carattere anticattolico della formazione dello Stato unitario affidata, più che alla spontanea aggregazione dei vecchi Stati della penisola, alla conquista manu militari da parte del Piemonte, è una certezza che la storiografia sembra aver ormai sufficientemente acquisito. L’appoggio che a quella conquista dichiaratamente fornirono le Chiese Evangeliche e la Massoneria s’accompagnò al tentativo d’una riforma religiosa che avrebbe dovuto, nell’intenzione degli autori, sradicare dai popoli forzatamente riuniti la profonda fede cattolica che era nella loro tradizione per sostituirla con una sorta di nuova religione di Stato. L’espropriazione dei beni della Chiesa, di cui fu beneficiario soprattutto un ceto di trasformisti dei preesistenti Stati italiani espressi dalla borghesia agraria e assurti a élites del nuovo Stato unitario, finì per estraniare a quest’ultimo i ceti popolari: offesi, oltre che nelle aspettative d’una solidarietà fin allora assicurata quasi esclusivamente dagli enti religiosi soppressi, ancor più nelle profonde loro tradizioni di fede e di culto.

Non c’è tempo, come dicevo, di spiegare il modo in cui questo sradicamento s’operò. S’è scritto – e mi limito a ricordare questo – che il percorso iniziato con la soppressione degli Ordini religiosi e l’espropriazione dei beni della Chiesa in Piemonte si conclude a Napoli con la scuola hegeliana di Bertrando Spaventa, che proporrà esplicitamente la nuova religione dello Stato, andando a cercare, cominciando naturalmente da Bruno, tutti i filoni ereticali nella storia del pensiero italiano e legandoli (spesso in modo artificioso) tra loro. In conclusione, il mito risorgimentale ha rappresentato ciò che in Italia si è avvicinato di più alle categorie della religione civile, intesa come un tentativo di elaborare “una sorta di liturgia patriottica secolarizzata e anticattolica”; e la sua sacralità è stata a tal punto enfatizzata che uno scrittore come Giovanni Spadolini arrivò, in tutta coerenza, a definir quasi “sacrilego” il processo al Risorgimento che andava finalmente levandosi da settori non secondari né trascurabili della società italiana.

Quale parte – e vengo così al secondo punto – ebbe Garibaldi in questa caratterizzazione fortemente anticattolica del Risorgimento, specie di quella sua fase finale che fu la spedizione nel Sud? Il mito di Garibaldi prese certamente avvio da un’innegabile popolarità dell’uomo; ma a diffonderlo contribuì soprattutto la sapiente costruzione d’una sua immagine pubblica che lo presentasse come apostolo di una religione civile destinata a vincere definitivamente gli insegnamenti (da giudicare inappellabilmente retrivi e caduchi) del Cattolicesimo. La partecipazione di Garibaldi alla difesa della Repubblica Romana aveva favorito la diffusione di quel mito nei paesi anglosassoni, dove l’immagine dello Stato pontificio, sede del Papato, risvegliava i pregiudizi anticattolici di quelle popolazioni, per le quali il protestantesimo costituiva un basilare elemento di giudizio sul Risorgimento italiano. Ma l’anticattolicesimo di Garibaldi, pur tenendo conto delle convenienze politiche (si pensi, per esempio, ai rilevanti aiuti economici e all’afflusso di volontari che le Chiese Evangeliche e le logge massoniche assicurarono alla spedizione nel Sud), si nutriva anzitutto d’una linfa che all’uomo proveniva dall’humus d’una certa sua cultura: priva sì di profondità, ma attenta nell’utilizzare tanto le risorse d’un innegabile intuito quanto i mezzi della comunicazione di massa. La stampa internazionale, che già prima del ’48 s’era rivelata uno strumento decisivo per la creazione della sua fama, nel biennio rivoluzionario lo aveva definitivamente lanciato come personaggio pubblico: e s’appropriò poi – senza opposizione dell’autore – anche dei suoi scritti (non sempre per verità impeccabili), a volte amputandoli o deformandone il testo a seconda del bisogno. E’ risaputo, per esempio, come l’edizione nazionale degli scritti di Garibaldi avesse lasciato cadere, quando non era più conveniente ostentarli, proprio i documenti che meglio illustravano i contenuti del suo acceso anticattolicesimo e dell’attenzione da lui riservata alla massoneria, alla quale era stato affiliato dal 1844. A giudicare della virulenza del suo giovanile anticattolicesimo basterebbero, nell’impossibilità in cui mi trovo di dilungarmi, delle citazioni: che io ometto, riportandomi a quelle, assai efficaci per la violenza e la volgarità del linguaggio di Garibaldi, che ha fatto nel suo intervento Luciano Salera.

E per chi obbiettasse che quelle citazioni sottendono anticlericalismo piuttosto che anticattolicesimo, ricorderei altre parole di Garibaldi, riferibili all’auspicio d’un progresso scientifico e tecnico: “E noi – egli proclamava solennemente – otterremo tale stupendo risultato, sostituendo a tutte le religioni rivelate o mentitrici la religione del vero, religione senza preti basata sulla ragione e la scienza”.

Il 7 settembre 1860 Garibaldi – e vengo così, rapidamente, al terzo punto del mio breve intervento – arrivò a Napoli, seguito da volontari la più gran parte dei quali non dissimili da lui per un’irreligiosità non immune da violenza di comportamenti e di linguaggio (basterà ricordare, per fermarci al linguaggio, che il fido Alberto Mario, quando nel 1881 i liberi pensatori affluiti a Roma non riuscirono a oltraggiare le spoglie di Papa Mastai, scrisse sul Dovere che non s’era riusciti a buttare nel Tevere la “carogna” di Pio IX.

Napoli era città cattolicissima, particolarmente legata a quel Pio IX che, esule e ospite ambito di Ferdinando II, i napoletani e prima di loro i gaetani avevano visto da vicino nelle loro città. E il cattolicesimo napoletano – si ricordi anche questo – s’esprimeva prevalentemente, a livello soprattutto dei ceti più umili, nelle forme d’una religiosità popolare che non sfuggiva talvolta all’accusa, da parte di un’èlite più colta, di superstizione. Quale fu dunque l’impatto cagionato dall’incontro tra Garibaldi e i suoi volontari da una parte e quel popolo di fedeli dall’altra?

Ho parlato di “incontro”, non di “scontro”, perché non può affermarsi che a Napoli fossero mancate, in quel settembre, manifestazioni di giubilo all’indirizzo di Garibaldi. Ma se “incontro” vi fu col popolo, ciò fu dovuto pure a un atteggiamento dissimulatorio (s’è usata anche l’espressione “machiavellico”) di Garibaldi. Pur ripromettendosi, infatti, di porre le basi di una nuova pietas popolare, spogliata – in conformità del suo sentire – d’ogni aspetto dogmatico, egli capiva di dover fare i conti coi sentimenti delle popolazioni. E a queste (che giudicava superstiziose) egli destinava naturalmente delle cerimonie in tutto diverse da quelle riservate ai “liberi pensatori”. La “religione del vero”, egli scriveva, è “più conforme all’alta intelligenza del libero pensatore”, mentre la “… religione di Dio” è “più conforme alle masse educate all’adorazione”, appunto, “di un Dio”. E il ben noto Fra Pantaleo, l’ineffabile cappellano dei Garibaldini, non esitava a commentare così il pensiero del suo capo: “nell’evolversi delle Rivoluzioni … t’imbatti, senza volerlo, in cose che, mal tuo grado, van … rispettate oggi, per poterle distruggere domani”: una precisazione che spiega a sufficienza perché Garibaldi, giunto a Palermo e a Napoli, s’interessasse con tanta finta devozione di Santa Rosalia e di San Gennaro.

Ma sulla Cattedra di San Gennaro sedeva un Vescovo tutt’altro che accomodante, Sisto Riario Sforza. Luigi Settembrini, nella Protesta del Popolo delle Due Sicilie, nel parlare di vescovi che avrebbero simoneggiato, tiranneggiato e mangiato le rendite, aveva incluso tra questi “lo stupido cardinale Riario Sforza”, caro alunno di Gregorio XVI, a suo dire “d’infame memoria”. La storiografia successiva,talvolta perfino di parte liberale, ha dimostrato come quel giudizio, acrimonioso e sgradevole, fosse manifestamente falso. Un recente convegno tenutosi a Napoli presso la Facoltà Teologica ha dato inizio a un approfondimento dei valori innegabili dell’episcopato di Riario Sforza, anche con riguardo particolare agli anni del Risorgimento e al primo ventennio unitario.

Garibaldi, dunque, appena entrato a Napoli, pretese i rituali atti di religione soliti a praticarsi all’ingresso d’un sovrano. Il Cardinale, naturalmente, oppose un rifiuto. E c’è da domandarsi se da un vero pastore si potesse accettare che i seguaci del Dittatore gli imponessero l’apertura del Duomo per ottenere un miracolo di S. Gennaro quasi “a comando”, o che fra Pantaleo vantasse perfino dall’altare l’uso che faceva delle armi per uccidere. Quel cappellano tuttavia riuscì con la violenza a non far mancare le cerimonie e i riti che servivano a Garibaldi per dissimulare il suo viscerale anticlericalismo ed erano assai utili a conciliargli la simpatia della gente.

A Riario Sforza non poteva certamente sfuggire ciò che di eversivo c’era nel programma dichiaratamente anticlericale dei nuovi venuti e quali pericoli corresse la sua Chiesa, col subire da un lato la sottrazione di beni, accompagnata alla soppressione degli Ordini religiosi, e iniziative dall’altro che rivelavano il proposito tanto di minarne la disciplina interna (con l’incoraggiare, per esempio, rivendicazioni e proteste del basso clero) quanto di ridurre l’ambito, fin allora esclusivo, del culto cattolico col favorire l’immediata diffusione di altre confessioni religiose. Il favore prestato al culto protestante (Garibaldi stesso autorizzò la costruzione della chiesa evangelica), la donazione, subito fatta in segno di gratitudine all’Inghilterra, d’un suolo perché vi si edificasse la chiesa anglicana, l’iniziativa (presto interrotta a furor di popolo) d’affidare la chiesa di San Sebastiano all’ex barnabita Alessandro Gavazzi, perché vi tenesse, a modo dei protestanti, una sua “spiegazione della Scrittura” non potevano certo lasciar indifferente l’Arcivescovo. Senza dire che già nei primi giorni della presenza di Garibaldi sarebbe stato possibile cogliere i segni premonitori d’una sorta di elezione di Napoli a centro dell’anticlericalismo europeo, che negli anni successivi avrebbe dato alla città il singolare privilegio d’ospitare un “anticoncilio” voluto da Giuseppe Ricciardi nel 1869, in concomitanza col Concilio Vaticano I, per riunire i sostenitori del “libero pensiero”.

Garibaldi, da parte sua, non poteva col suo intuito non misurare – e temere – l’intrepida fermezza di Riario Sforza. E a modo suo corse ai ripari. Fatta inscenare una dimostrazione contro di lui, la mattina del 22 settembre mandò fra Pantaleo a chiedergli l’adesione al nuovo regime rivoluzionario; e il pomeriggio dello stesso giorno l’incalzò con una lettera personale per chiedergli, con l’adesione già domandata, la licenza della celebrazione eucaristica per gli ecclesiastici che avevano seguito la spedizione e l’autorizzazione per tutto il clero (soprattutto per i giovani chierici) di continuare a seguirlo. La triplice richiesta fu in sostanza respinta, anche se Riario Sforza si riservava di studiare la questione dei preti garibaldini. La risposta del Dittatore fu immediata: il presule doveva lasciar Napoli il giorno stesso. Sull’imbrunire, perciò, costretto con la forza, venne fatto salire su un vapore di linea, l’Elettrico, ove si trovava anche Garibaldi. I due si guardarono, ma tra loro non fu detta parola. Sbarcato a Genova, Riario Sforza passò poi a Marsiglia, ospite per due giorni del Vescovo de Mazenod, che offrì rifugio anche agli arcivescovi di Sorrento, di Reggio e ad altri vescovi parimenti cacciati dalle loro sedi.

Fu questo il primo, breve esilio di Sisto Riario Sforza, terminato il 28 novembre dopo la farsa del plebiscito. Al ritorno a Napoli, il Cardinale trovò la città inondata di fogli anticlericali, suscettibili per di più d’un non arduo giudizio d’immoralità. Il 14 dicembre, perciò, con i vescovi suffraganei di Aversa, Nola, Ischia e Pozzuoli e con l’arcivescovo di Capua indirizzò una lettera al Luogotenente Farini per deprecare il fenomeno; sul quale, con lettera del 21 gennaio 1861, richiamò pure l’attenzione di Enrico Pessina, nominato direttore del Dicastero della Giustizia. E sull’argomento tornò ancora in tempo di Quaresima, con una lettera pastorale del 7 febbraio.

Ma il Governo non poteva dargli retta, affaccendato com’era in tutt’altra faccenda: la estensione al Sud di quel programma che, cominciato ad attuarsi in Piemonte quindici anni prima sotto l’etichetta di Libera Chiesa in libero Stato, significava, in concreto, confisca dei beni della Chiesa, soppressione degli Ordini religiosi, monache gettate sul lastrico, vescovi in prigione, coscrizione obbligatoria dei chierici, vescovadi vacanti, violazione dei concordati conclusi con la Santa Sede; asfissia della maggior parte delle iniziative culturali e sociali che la Chiesa aveva fin allora sostenuto: senza alcuna certezza che lo Stato unitario riuscisse tempestivamente a surrogarvisi.

Questo capitolo doloroso, indicato come il dilaceramento, che a lungo alienò i cattolici dalla patria italiana incluse pure un secondo esilio di Sisto Riario Sforza, che durò più di cinque anni: dal 1° agosto 1861 al 6 dicembre 1866.

Ma sulle responsabilità di questo secondo esilio, durante il quale vennero perpetrati ai danni dell’Arcivescovo abusi e affronti a volte inimmaginabili, che non fanno onore al Regno Sabaudo, Garibaldi non è chiamato in causa: e perciò, nel rispetto dei limiti del mio tema, mi fermo qui.

Bibliografia essenziale

Angela PELLICCIARI, Risorgimento da riscrivere – Liberali & massoni contro la Chiesa, con prefazione di Rocco Buttiglione e postfazione di Franco Cardini, 4^ ed., Edizioni Arco, 2000

Francesco PAPPALARDO, Il mito di Garibaldi. Una religione civile per una nuova Italia, Sugarco Edizioni, 2010

Gustavo RINALDI, Garibaldi. L’avventuriero, il massone, l’opportunista. Controcorrente, 2011

Domenico AMBRASI, Sisto Riario Sforza, Arcivescovo di Napoli, Città N