“Sicilia 1860 – 1870 – Una storia da riscrivere” Un’altra grande opera di Tommaso Romano da non perdere!

sicilia1860-70.jpgIl libro ripercorre come una drammatica narrazione i fatti assai reali che sconvolsero la Sicilia dopo l’impresa “garibaldina” e la conquista piemontese apertamente sostenuta dal’ Inghilterra. In successione le stragi di Bronte il naufragio e la morte di Ippolito Nievo, l’ultima resistenza borbonica della Real Cittadella di Messina, i plebisciti farsa, la leva obbligatoria, il brigantaggio, le rivolte di Castellammare del Golfo, Alcamo, Fantina, nel girgentano e i primi delitti di Stato, la repressione e gli stati di assedio, la Sicilia in rivolta nel 1866 e l’insorgenza palermitana del “Sette e mezzo”, la repressione, l’azione anticlericale, le leggi eversive contro la chiesa, la reazione cattolica e legittimista, la povertà, l’immigrazione tutti documentati con molte fonti inedite, moltissimi documenti di archivio riprodotti per la prima volta i manifesti del “Sette e mezzo”, lettere, documenti, fotografie, incisioni d’epoca, anche a colori, oltre 250 pagine di un libro che fa già discutere e che segna la naturale continuazione del fortunato volume (4 edizioni) “Dal Regno delle Due Sicilie al declino del Sud”

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DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI Reichstag di Berlino Giovedì, 22 settembre 2011

Benedetto XVI in Germania.jpgIllustre Signor Presidente Federale!
Signor Presidente del
Bundestag!
Signora Cancelliere Federale!
Signora Presidente del
Bundesrat!
Signore e Signori Deputati!

È per me un onore e una gioia parlare davanti a questa Camera alta – davanti al Parlamento della mia Patria tedesca, che si riunisce qui come rappresentanza del popolo, eletta democraticamente, per lavorare per il bene della Repubblica Federale della Germania. Vorrei ringraziare il Signor Presidente del Bundestag per il suo invito a tenere questo discorso, così come per le gentili parole di benvenuto e di apprezzamento con cui mi ha accolto. In questa ora mi rivolgo a Voi, stimati Signori e Signore – certamente anche come connazionale che si sa legato per tutta la vita alle sue origini e segue con partecipazione le vicende della Patria tedesca. Ma l’invito a tenere questo discorso è rivolto a me in quanto Papa, in quanto Vescovo di Roma, che porta la suprema responsabilità per la cristianità cattolica. Con ciò Voi riconoscete il ruolo che spetta alla Santa Sede quale partner all’interno della Comunità dei Popoli e degli Stati. In base a questa mia responsabilità internazionale vorrei proporVi alcune considerazioni sui fondamenti dello Stato liberale di diritto.

Mi si consenta di cominciare le mie riflessioni sui fondamenti del diritto con una piccola narrazione tratta dalla Sacra Scrittura. Nel Primo Libro dei Re si racconta che al giovane re Salomone, in occasione della sua intronizzazione, Dio concesse di avanzare una richiesta. Che cosa chiederà il giovane sovrano in questo momento? Successo, ricchezza, una lunga vita, l’eliminazione dei nemici? Nulla di tutto questo egli chiede. Domanda invece: “Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male” (1Re 3,9). Con questo racconto la Bibbia vuole indicarci che cosa, in definitiva, deve essere importante per un politico. Il suo criterio ultimo e la motivazione per il suo lavoro come politico non deve essere il successo e tanto meno il profitto materiale. La politica deve essere un impegno per la giustizia e creare così le condizioni di fondo per la pace. Naturalmente un politico cercherà il successo senza il quale non potrebbe mai avere la possibilità dell’azione politica effettiva. Ma il successo è subordinato al criterio della giustizia, alla volontà di attuare il diritto e all’intelligenza del diritto. Il successo può essere anche una seduzione e così può aprire la strada alla contraffazione del diritto, alla distruzione della giustizia. “Togli il diritto – e allora che cosa distingue lo Stato da una grossa banda di briganti?” ha sentenziato una volta sant’Agostino.[1] Noi tedeschi sappiamo per nostra esperienza che queste parole non sono un vuoto spauracchio. Noi abbiamo sperimentato il separarsi del potere dal diritto, il porsi del potere contro il diritto, il suo calpestare il diritto, così che lo Stato era diventato lo strumento per la distruzione del diritto – era diventato una banda di briganti molto ben organizzata, che poteva minacciare il mondo intero e spingerlo sull’orlo del precipizio. Servire il diritto e combattere il dominio dell’ingiustizia è e rimane il compito fondamentale del politico. In un momento storico in cui l’uomo ha acquistato un potere finora inimmaginabile, questo compito diventa particolarmente urgente. L’uomo è in grado di distruggere il mondo. Può manipolare se stesso. Può, per così dire, creare esseri umani ed escludere altri esseri umani dall’essere uomini. Come riconosciamo che cosa è giusto? Come possiamo distinguere tra il bene e il male, tra il vero diritto e il diritto solo apparente? La richiesta salomonica resta la questione decisiva davanti alla quale l’uomo politico e la politica si trovano anche oggi.

In gran parte della materia da regolare giuridicamente, quello della maggioranza può essere un criterio sufficiente. Ma è evidente che nelle questioni fondamentali del diritto, nelle quali è in gioco la dignità dell’uomo e dell’umanità, il principio maggioritario non basta: nel processo di formazione del diritto, ogni persona che ha responsabilità deve cercare lei stessa i criteri del proprio orientamento. Nel terzo secolo, il grande teologo Origene ha giustificato così la resistenza dei cristiani a certi ordinamenti giuridici in vigore: “Se qualcuno si trovasse presso il popolo della Scizia che ha leggi irreligiose e fosse costretto a vivere in mezzo a loro … questi senz’altro agirebbe in modo molto ragionevole se, in nome della legge della verità che presso il popolo della Scizia è appunto illegalità, insieme con altri che hanno la stessa opinione, formasse associazioni anche contro l’ordinamento in vigore…”[2]

In base a questa convinzione, i combattenti della resistenza hanno agito contro il regime nazista e contro altri regimi totalitari, rendendo così un servizio al diritto e all’intera umanità. Per queste persone era evidente in modo incontestabile che il diritto vigente, in realtà, era ingiustizia. Ma nelle decisioni di un politico democratico, la domanda su che cosa ora corrisponda alla legge della verità, che cosa sia veramente giusto e possa diventare legge non è altrettanto evidente. Ciò che in riferimento alle fondamentali questioni antropologiche sia la cosa giusta e possa diventare diritto vigente, oggi non è affatto evidente di per sé. Alla questione come si possa riconoscere ciò che veramente è giusto e servire così la giustizia nella legislazione, non è mai stato facile trovare la risposta e oggi, nell’abbondanza delle nostre conoscenze e delle nostre capacità, tale questione è diventata ancora molto più difficile.

Come si riconosce ciò che è giusto? Nella storia, gli ordinamenti giuridici sono stati quasi sempre motivati in modo religioso: sulla base di un riferimento alla Divinità si decide ciò che tra gli uomini è giusto. Contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, mai un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto – ha rimandato all’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un’armonia che però presuppone l’essere ambedue le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio. Con ciò i teologi cristiani si sono associati ad un movimento filosofico e giuridico che si era formato sin dal secolo II a. Cr. Nella prima metà del secondo secolo precristiano si ebbe un incontro tra il diritto naturale sociale sviluppato dai filosofi stoici e autorevoli maestri del diritto romano.[3] In questo contatto è nata la cultura giuridica occidentale, che è stata ed è tuttora di un’importanza determinante per la cultura giuridica dell’umanità. Da questo legame precristiano tra diritto e filosofia parte la via che porta, attraverso il Medioevo cristiano, allo sviluppo giuridico dell’Illuminismo fino alla Dichiarazione dei Diritti umani e fino alla nostra Legge Fondamentale tedesca, con cui il nostro popolo, nel 1949, ha riconosciuto “gli inviolabili e inalienabili diritti dell’uomo come fondamento di ogni comunità umana, della pace e della giustizia nel mondo”.

Per lo sviluppo del diritto e per lo sviluppo dell’umanità è stato decisivo che i teologi cristiani abbiano preso posizione contro il diritto religioso, richiesto dalla fede nelle divinità, e si siano messi dalla parte della filosofia, riconoscendo come fonte giuridica valida per tutti la ragione e la natura nella loro correlazione. Questa scelta l’aveva già compiuta san Paolo, quando, nella sua Lettera ai Romani, afferma: “Quando i pagani, che non hanno la Legge [la Torà di Israele], per natura agiscono secondo la Legge, essi … sono legge a se stessi. Essi dimostrano che quanto la Legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza…” (Rm 2,14s). Qui compaiono i due concetti fondamentali di natura e di coscienza, in cui “coscienza” non è altro che il “cuore docile” di Salomone, la ragione aperta al linguaggio dell’essere. Se con ciò fino all’epoca dell’Illuminismo, della Dichiarazione dei Diritti umani dopo la seconda guerra mondiale e fino alla formazione della nostra Legge Fondamentale la questione circa i fondamenti della legislazione sembrava chiarita, nell’ultimo mezzo secolo è avvenuto un drammatico cambiamento della situazione. L’idea del diritto naturale è considerata oggi una dottrina cattolica piuttosto singolare, su cui non varrebbe la pena discutere al di fuori dell’ambito cattolico, così che quasi ci si vergogna di menzionarne anche soltanto il termine. Vorrei brevemente indicare come mai si sia creata questa situazione. È fondamentale anzitutto la tesi secondo cui tra l’essere e il dover essere ci sarebbe un abisso insormontabile. Dall’essere non potrebbe derivare un dovere, perché si tratterebbe di due ambiti assolutamente diversi. La base di tale opinione è la concezione positivista, oggi quasi generalmente adottata, di natura. Se si considera la natura – con le parole di Hans Kelsen – “un aggregato di dati oggettivi, congiunti gli uni agli altri quali cause ed effetti”, allora da essa realmente non può derivare alcuna indicazione che sia in qualche modo di carattere etico.[4] Una concezione positivista di natura, che comprende la natura in modo puramente funzionale, così come le scienze naturali la riconoscono, non può creare alcun ponte verso l’ethos e il diritto, ma suscitare nuovamente solo risposte funzionali. La stessa cosa, però, vale anche per la ragione in una visione positivista, che da molti è considerata come l’unica visione scientifica. In essa, ciò che non è verificabile o falsificabile non rientra nell’ambito della ragione nel senso stretto. Per questo l’ethos e la religione devono essere assegnati all’ambito del soggettivo e cadono fuori dall’ambito della ragione nel senso stretto della parola. Dove vige il dominio esclusivo della ragione positivista – e ciò è in gran parte il caso nella nostra coscienza pubblica – le fonti classiche di conoscenza dell’ethos e del diritto sono messe fuori gioco. Questa è una situazione drammatica che interessa tutti e su cui è necessaria una discussione pubblica; invitare urgentemente ad essa è un’intenzione essenziale di questo discorso.

Il concetto positivista di natura e ragione, la visione positivista del mondo è nel suo insieme una parte grandiosa della conoscenza umana e della capacità umana, alla quale non dobbiamo assolutamente rinunciare. Ma essa stessa nel suo insieme non è una cultura che corrisponda e sia sufficiente all’essere uomini in tutta la sua ampiezza. Dove la ragione positivista si ritiene come la sola cultura sufficiente, relegando tutte le altre realtà culturali allo stato di sottoculture, essa riduce l’uomo, anzi, minaccia la sua umanità. Lo dico proprio in vista dell’Europa, in cui vasti ambienti cercano di riconoscere solo il positivismo come cultura comune e come fondamento comune per la formazione del diritto, riducendo tutte le altre convinzioni e gli altri valori della nostra cultura allo stato di una sottocultura. Con ciò si pone l’Europa, di fronte alle altre culture del mondo, in una condizione di mancanza di cultura e vengono suscitate, al contempo, correnti estremiste e radicali. La ragione positivista, che si presenta in modo esclusivista e non è in grado di percepire qualcosa al di là di ciò che è funzionale, assomiglia agli edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mondo vasto di Dio. E tuttavia non possiamo illuderci che in tale mondo autocostruito attingiamo in segreto ugualmente alle “risorse” di Dio, che trasformiamo in prodotti nostri. Bisogna tornare a spalancare le finestre, dobbiamo vedere di nuovo la vastità del mondo, il cielo e la terra ed imparare ad usare tutto questo in modo giusto.

Ma come lo si realizza? Come troviamo l’ingresso nella vastità, nell’insieme? Come può la ragione ritrovare la sua grandezza senza scivolare nell’irrazionale? Come può la natura apparire nuovamente nella sua vera profondità, nelle sue esigenze e con le sue indicazioni? Richiamo alla memoria un processo della recente storia politica, nella speranza di non essere troppo frainteso né di suscitare troppe polemiche unilaterali. Direi che la comparsa del movimento ecologico nella politica tedesca a partire dagli anni Settanta, pur non avendo forse spalancato finestre, tuttavia è stata e rimane un grido che anela all’aria fresca, un grido che non si può ignorare né accantonare, perché vi si intravede troppa irrazionalità. Persone giovani si erano rese conto che nei nostri rapporti con la natura c’è qualcosa che non va; che la materia non è soltanto un materiale per il nostro fare, ma che la terra stessa porta in sé la propria dignità e noi dobbiamo seguire le sue indicazioni. È chiaro che qui non faccio propaganda per un determinato partito politico – nulla mi è più estraneo di questo. Quando nel nostro rapporto con la realtà c’è qualcosa che non va, allora dobbiamo tutti riflettere seriamente sull’insieme e tutti siamo rinviati alla questione circa i fondamenti della nostra stessa cultura. Mi sia concesso di soffermarmi ancora un momento su questo punto. L’importanza dell’ecologia è ormai indiscussa. Dobbiamo ascoltare il linguaggio della natura e rispondervi coerentemente. Vorrei però affrontare con forza un punto che – mi pare – venga trascurato oggi come ieri: esiste anche un’ecologia dell’uomo. Anche l’uomo possiede una natura che deve rispettare e che non può manipolare a piacere. L’uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé. L’uomo non crea se stesso. Egli è spirito e volontà, ma è anche natura, e la sua volontà è giusta quando egli rispetta la natura, la ascolta e quando accetta se stesso per quello che è, e che non si è creato da sé. Proprio così e soltanto così si realizza la vera libertà umana.

Torniamo ai concetti fondamentali di natura e ragione da cui eravamo partiti. Il grande teorico del positivismo giuridico, Kelsen, all’età di 84 anni – nel 1965 – abbandonò il dualismo di essere e dover essere. (Mi consola il fatto che, evidentemente, a 84 anni si sia ancora in grado di pensare qualcosa di ragionevole.) Aveva detto prima che le norme possono derivare solo dalla volontà. Di conseguenza – aggiunge – la natura potrebbe racchiudere in sé delle norme solo se una volontà avesse messo in essa queste norme. Ciò, d’altra parte – dice – presupporrebbe un Dio creatore, la cui volontà si è inserita nella natura. “Discutere sulla verità di questa fede è una cosa assolutamente vana”, egli nota a proposito.[5] Lo è veramente? – vorrei domandare. È veramente privo di senso riflettere se la ragione oggettiva che si manifesta nella natura non presupponga una Ragione creativa, un Creator Spiritus?

A questo punto dovrebbe venirci in aiuto il patrimonio culturale dell’Europa. Sulla base della convinzione circa l’esistenza di un Dio creatore sono state sviluppate l’idea dei diritti umani, l’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge, la conoscenza dell’inviolabilità della dignità umana in ogni singola persona e la consapevolezza della responsabilità degli uomini per il loro agire. Queste conoscenze della ragione costituiscono la nostra memoria culturale. Ignorarla o considerarla come mero passato sarebbe un’amputazione della nostra cultura nel suo insieme e la priverebbe della sua interezza. La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma – dall’incontro tra la fede in Dio di Israele, la ragione filosofica dei Greci e il pensiero giuridico di Roma. Questo triplice incontro forma l’intima identità dell’Europa. Nella consapevolezza della responsabilità dell’uomo davanti a Dio e nel riconoscimento della dignità inviolabile dell’uomo, di ogni uomo, questo incontro ha fissato dei criteri del diritto, difendere i quali è nostro compito in questo momento storico.

Al giovane re Salomone, nell’ora dell’assunzione del potere, è stata concessa una sua richiesta. Che cosa sarebbe se a noi, legislatori di oggi, venisse concesso di avanzare una richiesta? Che cosa chiederemmo? Penso che anche oggi, in ultima analisi, non potremmo desiderare altro che un cuore docile – la capacità di distinguere il bene dal male e di stabilire così un vero diritto, di servire la giustizia e la pace. Vi ringrazio per la vostra attenzione.

150° della conquista del Sud -“Pontelandolfo: la strage dimenticata” di Peppino Bagnasco

   All’alba del 14 agosto 1861, ad un anno esatto dall’eccidio di Bronte e a cinque mesi dalla proclamazione del Regno d’Italia, una  morte crudelissima si abbattè sugli abitanti di Pontelandolfo e Casalduni, della Prefettura di Benevento. Oggi a 150 anni di distanza ci è doveroso ricordare quello che potremmo indicare per definizione come il giorno della vergogna, il giorno che nessun italiano di tale nome del 1860, avrebbe mai pensato avvenisse: il massacro per rappresaglia di civili inermi compresi vecchi, donne e bambini ad opera di due battaglioni di bersaglieri “italiani”. A differenza della strage di Bronte di stampo politico, quella dei due paesi matesi (in tutto circa 7500 abitanti) fu di matrice terroristica, per dare un esempio ai movimenti antiunitari di come il governo italiano non avrebbe tollerato azioni contro le proprie truppe. Ma riassumiamo brevemente con ordine gli avvenimenti di quell’anno. Il 17 marzo 1861 è il giorno dell’assunzione del titolo di Re d’Italia da parte del Re di Sardegna. (A proposito, visto che i duchi di Casa Savoia da tempo avevano abbandonato l’Alta Savoia e scelto Torino come loro residenza, con la vocazione di cercare nell’Alta Italia l’espansione territoriale, si è mai chiesto qualcuno perché le Potenze europee sia nel 1713 che nel 1720 li elevarono a rango di Re di Sicilia, e poi di Sardegna, ma mai Re di Piemonte com’era logico che fosse?). Il 7 aprile 1861 nel castello federiciano di Lagopesole (in terra di Basilicata, chiamata poi dal regime fascista con il romano nome di Lucania), avvenne il raduno di tutte le bande dei ribelli per acclamare a proprio generalissimo, Carmine Crocco Donatelli, come ci dice Indro Montanelli nella sua “Storia d’Italia e per innalzare nuovamente il vessillo borbonico con l’adozione delle coccarde rosse da contrapporre a quelle azzurre dei Savoia. Le bande, è bene ricordarlo, non erano le endemiche bande stanziali dei fuorilegge, ma erano composte oltre che da queste,  da combattenti ribelli, in maggior parte militari dei cinquantamila sbandati del disciolto esercito duosiciliano, da disertori (cittadini che volevano sfuggire alla leva obbligatoria di sette anni, si diceva in Sicilia “megghiu porcu ca surdatu“), da alcuni evasi dalle carceri, da contadini esausti dalle angherie e dalle tasse, da nostalgici borbonici, nonchè da garibaldini traditi nelle loro attese, tutti protetti dall’omertà dei residenti (per convinzione o per paura) e fiancheggiati dall’intera classe del clero. Non dimentichiamo che l’obiettivo dei massoni, quinta colonna della spedizione dei “Mille”, era la liquidazione dello Stato della Chiesa e l’affermazione di uno Stato laico di stampo inglese. A costoro si aggiungevano, come riferisce lo storico Del Boca, circa 80.000 gregari formando il tutto, dal Tronto alle Calabrie, circa 400 bande. Combatterono in primis contro i “galantuomini”, i nuovi ricchi, che si erano impossessati del demanio pubblico, e contro quelli che consideravano truppe d’occupazione. Seguirono guerriglie, agguati, uccisioni, ritorsioni, stragi, rappresaglie che in cinque anni, dal ’61 al ’65 vide i cosiddetti “briganti” contrastare l’Esercito regolare, forte di 120.000 uomini appoggiato da 80.000 effettivi della Guardia Nazionale. I motivi del diffuso malcontento era noto: l’aggravio delle tasse, l’abolizione degli usi civici del demanio, la coscrizione obbligatoria, l’estensione a tutte le province delle leggi piemontesi senza tener il alcun conto per una politica miope, della diversità delle culture dei paesi annessi. Fu una vera e propria guerra civile, con molte analogie con quella combattuta negli stessi anni, in America tra Nordisti e Sudisti. Anche lì le truppe d’occupazione si ritirarono solo nel 1876 in cambio dell’appoggio per le presidenziali al candidato repubblicano. Il 2 agosto 1861 Massimo D’Azeglio ( genero di Alessandro Manzoni e già Governatore di Milano), scrivendo al senatore Matteucci, così affermava:”.. a Napoli abbiamo cacciato il sovrano per stabilire un governo sul consenso universale ( ma era universale il 2% della popolazione ?) ma so che di qua dal Tronto (fiume delle Marche che delimitava il confine del Regno delle Due Sicilie) non ci vogliono sessanta battaglioni e di là, sì…..si deve trovare il modo di sapere dai Napoletani, una buona volta, se ci vogliono o no ..”, Ma torniamo a quel funesto mese di agosto del ’61. La notte tra il 4 e il 5 le alture circondanti Pontelandolfo erano piene di fuochi accesi. E’ un avvertimento preciso dei ribelli ai collaborazionisti dei piemontesi che puntualmente si danno alla fuga. Il 6 è l’annuale fiera di San Donato. Accorrono in tanti dai paesi limitrofi. Nello spiazzo della chiesa sono in circa 5000. Vi si unisce anche la banda di Cosimo Giordano, già sergente dei carabinieri a cavallo dell’esercito borbonico. Il paese viene occupato al grido di Viva Re Francesco II. Con i governanti latitanti, nel paese viene proclamato un  governo provvisorio. La rivolta si propaga. Insorgono Molinara, S. Giorgio, Pago, Pietralcina. A Casalduni viene assaltata la sede della Guardia nazionale, la folla si impadronisce delle armi, vengono innalzati i vessilli borbonici e stracciati quelli savoiardi. Inizia la repressione. Il 9 a Cancello vengono uccisi dai soldati 29 civili inermi,  Il Governatore di Campobasso dà avviso a Napoli al generale Cialdini che tutto il Sannio e il Matese è in mano ai briganti. Al generale Maurizio De Sonnaz (soprannominato “Requiescant” per la facilità con cui ordinava la fucilazione dei religiosi e l’assalto a chiese ed abbazie) viene dato il comando delle operazioni di polizia. Alla fine ci si accorgerà che nel Meridione si sarà trattato di vera e propria “pulizia etnica”. Il 10 agosto un drappello di 45 soldati del 36°Rgt Fanteria di bersaglieri, al comando del tenente Bracci, inviato inopinatamente a Pontelandolfo per sciogliere quel “governo provvisorio”, viene accolto a fucilate. Muore un soldato. Il gruppo ripiega verso Casalduni, paese a 5 Km di distanza. Viene respinto dalla banda Pica, altro sergente dell’esercito duosiciliano. Il Bracci, accusato dai suoi di codardia, viene ucciso. Il giorno 11 circondati da centinaia di ribelli,il drappello si arrende. In quei due giorni i militari avevano fatto man bassa nelle case dei contadini di tutto quanto occorreva loro per sussistenza, non escluso il furto, la rapina, i soprusi. Il 12 viene istruito un sommario processo. A sera vengono fucilati. Il Cialdini informato della morte del suo Reparto, ordina la rappresaglia: “ che di Pontelandolfo e Casalduni non rimanesse pietra su pietra”. Due colonne di soldati, una di 500 bersaglieri al comando del tenente-colonnello Negri e un’altra di 400 al comando del maggiore Melegari si dirigono verso Pontelandolfo e Casalduni. All’alba del 14 la banda Giordano avvista la colonna del Negri. Ne nasce uno scontro a fuoco. Cadono 25 soldati. La banda si ritira, ma il colonnello anziché inseguirli e fare giustizia, preferisce entrare nella storia come criminale di guerra. Dà ordine ai suoi di circondare il paese, chiuderne tutte le vie d’accesso e di incendiare le porte delle case. Inizia il massacro. I malcapitati colti nel sonno tentano la fuga, spesso seminudi. Vengono falciati dai soldati appostati. Si registrano scene di inaudita violenza. Gli anziani e i bambini vengono uccisi subito, le donne specie se piacenti dopo aver subito le violenze e lo stupro. Sintomatico il caso Biondi. Concettina Biondi, una bella  sedicenne, davanti al padre legato ad un palo, viene denudata e violentata bestialmente a turno in una stalla per un’ora da dieci bersaglieri. Sarà poi uccisa insieme al padre. Tutto il paese brucia. Le abitazioni sono saccheggiate: oro, argento, soldi, catene, bracciali, orecchini, orologi, finanche pentole e piatti. Il saccheggio e le stragi durano l’intera giornata del 14 agosto. Non furono risparmiati nemmeno due giovani liberali universitari unitaristi ( i fratelli Rinaldi) che protestarono col Negri per quell’incredibile realtà a cui stavano assistendo. Per le loro reiterate proteste il “macellaio” ne ordinò la fucilazione. Morirono sulla spianata della chiesa di San Donato senza i conforti religiosi, pur richiesti. Dal saccheggio non furono risparmiate le chiese. Le statue dei Santi spogliate dei doni dei fedeli. Le pissidi, i calici, i quadri, i vasi, tutto fu rubato. Molti di quegli oggetti comparvero il giorno dopo a Fragneto Monforte dove fu allestito un mercatino per la loro vendita. Casalduni subì la stessa sorte. Ma lì gli abitanti avvertiti per tempo fuggirono sulle colline circostanti. Primi fra tutti, quelli  che avevano partecipato o eseguito la fucilazione dei soldati. Quelli rimasti, essendo innocenti e credendosi al riparo della giustizia, pensarono di non avere nulla da temere anche perché indicati tali al Melegari dai collaborazionisti. Ma l’azione ordinata dal De Sonnaz, che di nobile aveva solo il casato, doveva avere il suo conseguente connotato intriso di terrore. E così morirono in tanti, passati con la baionetta o bruciati dentro le loro case. A notte il colonnello Negri così telegrafava:”.. ieri mattina all’alba giustizia fu fatta contro Pontelandolfo e Casalduni. Essi bruciano ancora..”. A sua volta il De Sonnaz in un dispaccio inviato al Cialdini a Napoli e all’Aiutante di campo del Re a Torino, così annunciava compiaciuto:”.. Giustizia è fatta. L’azione di Negri è stata perfetta”.. In quanti morirono nella feroce rappresaglia non è stato mai possibile accertarlo con precisione. Mancano i documenti ufficiali, per l’incenerimento degli archivi, per la sparizione dei rapporti dei comandanti dei battaglioni. Tutto doveva essere messo a tacere, vista l’eco che gli avvenimenti ebbero sulla inorridita stampa estera. Un silenzio simile a quello imposto il precedente 11 marzo con la sparizione del diario di bordo della nave “Generoso” inviata per ricercare in mare relitti del naufragio del vapore “Ercole” affondato con le venti casse di documenti della “epopea dei Mille”del colonnello-poeta Ippolito Nievo. Oggi in una lapide di Pontelandolfo si possono leggere  i nomi di tredici vittime (presumibilmente quelle attinte dal “fuoco amico”). Altri come il filogovernativo “Il popolo d’Italia”, accenna a 164 morti. Secondo altri fonti sarebbero stati tra i 900 e i 2000. E’ un fatto che centinaia di sopravvissuti rastrellati nelle campagne, furono condotti sotto scorta a Benevento e Campobasso e della loro sorte non si è saputo più nulla. Dopo un raffronto fatto sui registri parrocchiali il parroco Don Giovanni Casilli così scriveva nel suo “ In cammino per Emmaus”: “..un calo secco dal 1857 al 1861 registra la popolazione di Pontelandolfo, passando da 5561 a 4375 unità”. Mancano quindi al censimento del 1861, il primo dell’Unità, ben 1186 anime! I morti registrati dal 14 agosto al 31 dicembre di quell’anno furono 291. Ma in tanti, irriconoscibili perché bruciati, non vennero registrati. Furono sepolti in una fossa comune dietro la chiesa di San Donato. Certo,  gli storici agiografici affermano che queste sono cifre inventate per screditare la nuova Italia peraltro ancora incompleta mancando alla sua unificazione il Veneto, il Trentino, le Venezie Giulie e il Lazio. Territori sotto il dominio dell’Impero asburgico o sotto tutela del Secondo Impero francese e pertanto difficilmente acquisibili con giochi di palazzo. Ma soccorre allo stabilimento della verità storica, i diari dei militari che parteciparono alla criminale azione di “guerra”. E così dal bersagliere Carlo Margolfo del 6° btg del 36° Rgt Fanteria (quello del Negri), apprendiamo:”.. entrammo nel paese. Subito abbiamo cominciato a fucilare i preti e uomini quanti capitava… e quale desolazione, non si poteva stare d’intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti e chi sotto le macerie delle case… il maggiore Rossi ordinò ai suoi sottoposti l’incendio e lo sterminio dell’intero paese. Allora fu fiera rappresaglia di sangue che si posò con tutti i suoi orrori su quella colpevole popolazione…”. Di Casalduni, un ufficiale anch’esso del 36°Rgt, tale Angiolo De Witt, piemontese, annota: “..i manipoli di bersaglieri fecero snidare dalle case gli impauriti reazionari dell’ieri e quando, dai mucchi di quei cafoni erano costretti dalle baionette a scendere per le vie, ivi giunti, vi trovavano squadre di soldati che facevano una scarica a bruciapelo contro di loro.. questa scena di terrore guerriero durò un’intera giornata..”. E’ ancora il tristo  colonnello Negri che in una lettera al padre inviata tempo dopo, scrive:”..gli abitanti di questo villaggio (Pontelandolfo) commisero il più nero tradimento e degli atti di mostruosa barbarie, ma la punizione che gli venne inflitta, quantunque meritata, non fu per questo meno barbara. Un battaglione di bersaglieri entrò in paese, uccisero quanti vi erano rimasti, saccheggiò tutte le case e poi mise il fuoco al villaggio intero, che venne interamente distrutto. La stessa sorte stoccò a Casalduni…”. A confermare queste inequivocabili e terribili realtà ecco le parole del tenente Mancini di ritorno da Pontelandolfo dove era stato inviato dal maggiore Melegari: ”.. possiamo tornarcene a San Lupo (dove si era concentrata la brigata) il colonnello Negri ha distrutto completamente Pontelandolfo: ho visto mucchi di cadaveri, forse cinquecento, forse ottocento, forse mille, una vera carneficina”. Il giornale fiorentino “Il Contemporaneo” pubblicò alcune statistiche sui primi nove mesi di “libertà” piemontese nell’ex Regno delle Due Sicilie: ”.. morti fucilati immantinente 1841, fucilati dopo qualche ora 7127, feriti 10.604, prigionieri e arrestati circa 20.000. Case saccheggiate 2103, incendiate 918, paesi distrutti 14, incendiati 5, chiese saccheggiate 12, sacerdoti fucilati 54, frati fucilati 22, comuni insorti 1428, persone rimaste senzatetto oltre 40.000”. I caduti nell’Esercito italiano furono tanti quanti non si ebbero nelle tre guerre d’indipendenza. Il colonnello Pier Eleonoro Negri, già medaglia d’oro al valore per il comportamento dimostrato al Volturno, due mesi dopo la strage di Pontelandolfo, fu creato Cavaliere dell’Ordine di San Maurizio e Lazzaro. Furono pure insigniti Grand’Ufficiali dell’Ordine Militare oltre a Maurizio conte De Sonnaz ed Enrico Cialdini, Nino Bixio, Giacomo Medici, Giuseppe Pianelli, Giuseppe Covone, Emilio Pallavicini di Priola, tutti implicati nel tempo nella “normalizzazione” dell’ex Regno e in particolare della Sicilia che da costoro chi con correità, chi direttamente, patì in tre stati d’assedio enormi sofferenze. Recentemente il sindaco di Pontelandolfo, Cosimo Testa, ha chiesto, inascoltato, il riconoscimento di status di “Città Martire”. A noi è sufficiente l’averlo ricordato a memoria dei tanti massacrati. Nel tempo Giovanni Verga in “Libertà” e Luigi Pirandello in “I vecchi e i giovani”e a cui non si è sottratto Antonio Gramsci, hanno emesso giudizi storici molto severi sul processo dell’unificazione dell’Italia. Il 23 marzo 1944 i tedeschi occupanti Roma, per l’attentato di Via Rasella operato dai partigiani, a rappresaglia dei 30 caduti del battaglione “Bozen”, trucidarono alle “Fosse ardeatine”  335 civili. E’ una data che viene ricordata annualmente e giustamente. Perché non viene reso uguale onore anche ai trucidati di Pontelandolfo e Casalduni sui quali, a maggior disonore, non ci fu avviso di rappresaglia? Ormai anche i più restii tra gli storici hanno riconosciuto il massacro e manifestato dubbi su come si giunse all’acquisizione del Regno delle Due Sicilie. Perfino la storica inglese (è quanto dire) Lucy Riall, docente di Storia al Birkbeck College di Londra, parla della spedizione di Garibaldi come di una vicenda mediatica. Infatti al seguito dei Mille c’erano giornalisti (come Jessie White Mario), scrittori (quale Alessandro Dumas) e artisti vari (in genere pittori che fecero delle litografie fantastiche sulle vicende del ’60). E parla anche delle ombre sulla raccolta dei fondi operata da Agostino Bertani e sugli uomini che fecero l’Unità d’Italia. A leggere Pirandello, nel Meridione tre furono i fallimenti dell’unificazione: come rinnovamento dell’Italia, come strumento di liberazione delle zone sottosviluppate, come nascita del Socialismo inteso quale ripresa del movimento risorgimentale. Nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia è un dovere  per una cosciente accettazione  condivisa, il riconoscere un eccidio che travalicando il fine della rappresaglia fu eseguito a solo scopo terroristico e risultato tra i più efferati crimini della storia. Anche il generale Sherman nel 1864 l’aveva fatto ordinando l’incendio insensato della città di Atlanta degli Stati Confederati del Sud e compiuto dopo averla evacuata. Decenni prima lo stesso aveva fatto il generale russo Kutuzoff con Mosca, sacrificata nell’intento strategico di fare terra bruciata alle truppe napoleoniche. I risultati della guerra civile italiana combattuta dal 1861 e protrattasi fino al 1870, li espone lo storico del Meridione borbonico Ciro Pelliccio quando scrive che le fonti più accreditate danno per i ribelli 123.860 fucilati, 130.364 feriti, 43.629 deportati, 41 paesi completamente distrutti, 10.760 briganti condannati all’ergastolo e 382.637 a pene varie. Un vero e proprio massacro. Nell’Esercito italiano le perdite ammontarono a  21.120 soldati caduti in combattimento, 1.073 morti per “febbri” (tifo e malaria) o per ferite, 820 dispersi. Sui testi ufficiali dei libri di scuola di ogni ordine e grado tutto ciò è taciuto. Di Pontelandolfo e Casalduni dove uomini, donne, bambini, vecchi, religiosi, trovarono una morte spesso orrenda a tutt’oggi si registra un silenzio  colpevole e consapevole. Ma la storia esige il suo tributo di verità e prima o poi l’avrà. Prima o poi annoterà il giorno 14 agosto 1861, come il giorno dell’infamia. Il giorno della strage dimenticata.

 

L’Innovazione dal Cuore Antico: attività svolta, sintesi del congresso fondativo e linee programmatiche

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E’ uscita in occasione del convegno del 16 giugno, la pubblicazione di cui sopra con: sintesi delle attività svolte in questo periodo del partito a cura di Vito Mauro, gli interventi di Tommaso Romano e Nino Sala al congresso fondativo del 30 gennaio 2011, il documento politico con le linee programmatiche approvate dal congresso. Chiunque fosse interessato ne può fare richiesta tramite email alla segreteria federale o chiamare al 3332419046.

Il siciliano a scuola! Buona l’idea però aspettiamo i fatti

Trinacria2.jpgIl Partito Tradizional Popolare apprezza l’atto con il quale la commissione cultura dell’Assemblea Regionale Siciliana ha fatto partite l’iter legislativo per l’introduzione dell’insegnamento della storia della Sicilia e dell’identità siciliana nelle scuole. E’un segnale importante per la tutela e la valorizzazione della nostra tradizione linguistica e per la riscoperta dell’importanza della cultura che la Sicilia ha offerto al mondo. Restiamo in attesa, però, che questo ddl diventi legge e che si definisca chi insegnerà e che cosa si insegnarà nelle aule, perchè è certamente molto più difficile di un si in commissione cultura, andare a identificare quale siciliano insegnare: per esempio quale prefeisce secondo voi Lombardo, quello palermitano o quello catenese? Vedremo dai fatti se quest’atto resterà solo un provvedimento propagandistico e mediatico senza nessun effetto pratico o se veramente questo governo e questo parlamento saranno in grado di partorire qualcosa di buono.